Arianna Fontanot
pubblicato 8 anni fa in Letteratura

Dante e la patria: politica ed esilio

Dante e la patria: politica ed esilio

La situazione storica del Trecento italiano è, indubbiamente, complessa, in particolare per i primi vent’anni di secolo. Il Sommo Poeta ne coglie gli aspetti più significativi, soprattutto in relazione alla propria vicenda personale, nella “Commedia”. Quest’opera, cui “ha posto mano e cielo e terra”, costituisce uno dei più lucidi atti d’accusa fra quelli che un intellettuale abbia mai mosso alla propria terra natia, in altre parole, alla complessità della contingenza Dante risponde con un documento ampio e articolato eppure chiaro e completo, che non lascia margine di difesa all’imputato. È necessario sottolineare l’ingerenza che i fatti politici hanno sul racconto e il modo in cui l’accusa diventa il luogo precipuo per il poeta di far valere le proprie ragioni. Lo stratagemma letterario è quello di un viaggio, che vede come accompagnatori Virgilio, dapprima, e Beatrice, in seguito, attraverso i tre regni dell’aldilà: Inferno, Purgatorio e Paradiso. D’altra parte, tuttavia,questo viaggio è collocato in un momento storico molto preciso: la Settimana Santa del 1300, in cui ebbe inizio, per volere di Papa Bonifacio VIII, il Giubileo che avrebbe concesso l’indulgenza plenaria a tutti i fedeli che si fossero recati in pellegrinaggio a Roma. Ed è questo un punto su cui vale la pena soffermarsi: la teocrazia papale, che corrompe la politica del tempo. Dante, in opposizione all’ideale teocratico contemporaneo, sostiene che i papi abbiano usurpato il potere temporale, il quale invece spetterebbe di norma all’imperatore, non conformandosi al precetto evangelico di “dare a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio”. Si faccia riferimento, in particolare, ai versi 106-108 del canto XVI del Purgatorio:

Soleva Roma che’l buon mondo feo
due soli aver, che l’una e l’altra strada
facean veder, e del mondo e di Deo.

Il poeta si serve del saggio cortigiano Marco Lombardo e sottolinea una teoria già presa in considerazione nel secondo libro della Monarchia, quella secondo cui l’uomo possiede una duplice natura, mortale e immortale, che

Annibale Gatti, Dante in esilio

Annibale Gatti, Dante in esilio

permette la collaborazione ideale fra le due istituzioni terrene che Dio ha creato per la felicità umana: Papato e Impero; esse sono paragonate l’una al Sole e l’altra alla Luna, in quanto esercitano poteri distinti ma complementari.
Nel caso della Commedia, però, vi sono , a sostituzione del paragone biblico di sole e luna, due soli, che costituiscono l’emblema dei due poteri, temporale e spirituale e hanno pari dignità ma al contempo indipendenza reciproca. Il “buon mondo” è invece l’Impero Romano, cioè il modello politico da seguire per venire a capo della crisi che coinvolge i due poteri universali tra Duecento e Trecento: Dio infatti diede ai papi e agli imperatori due compiti ben distinti e complementari, ma il papa ha usurpato il potere dell’imperatore pretendendo di governare e di possederli entrambi. L’accusa di Dante a questo atteggiamento si fa particolarmente acuta nel XIX canto dell’ Inferno, in cui il terribile contrappasso di Papa Niccolò III è ritenuto adatto a chi commerciò le cose sacre. Ma il vero imputato dell’accusa sarà Bonifacio VIII, l’exemplum negativo, che ha permesso alla Santa Sede di divenire una cloaca del sangue e de la puzza. Egli è presentato come un pontefice avido di potere, che ha mandato in rovina Firenze con le proprie mire politiche, scatenando la discordia fra fazioni e l’esilio dei Bianchi. A questo proposito si deve considerare il canto VI dell’Inferno, in cui è il goloso Ciacco a profetizzare per la prima volta l’esilio del poeta, versi 64-72:

E quelli a me: «Dopo lunga tencione
verranno al sangue, e la parte selvaggia
caccerà l’altra con molta offensione.

Poi appresso convien che questa caggia
infra tre soli, e che l’altra sormonti
con la forza di tal che testé piaggia

Alte terrà lungo tempo le fronti,
tenendo l’altra sotto gravi pesi,
come che di ciò ne pianga o che n’aonti.

In queste tre terzine è indiretto il riferimento all’esilio, cui Ciacco fa cenno con un’indicazione temporale “lungo tempo”. La città “partita” infatti è, secondo il dannato, devastata da tre vizi, superbia, invidia e avariza, al punto che le fazioni avverse giungeranno ad una guerra civile, proprio ciò che Dante cercava di scongiurare nel 1301 con la sua attività di ammbasciatore. Quest’ultimo è un anno importante all’interno della biografia del poeta: egli infatti, si trovava a Roma al cospetto di Bonifacio VIII per “la concordia e la pace de’ cittadini” quando apprese che Carlo di Valois, dopo la conquista di Firenze, appoggiava i Neri e perseguitava invece i Bianchi a cui egli era allora accomunato. La sua reazione fu quella di non tornare in patria e fu, perciò, accusato di baratteria e bandito dalla città. È questo dunque il punto di inizio di un esilio immeritato, che segnerà la vita e il destino poetico di Dante. Una seconda profezia, più accurata in un certo senso, è presente nel canto X dell’Inferno. Questa volta è, però, un personaggio politico di spicco della Firenze del Trecento, un ghibellino, a parlare: Farinata degli Uberti, il quale sostiene che passeranno cinquanta mesi prima che Dante capisca che cosa significhi non apprendere l’arte di tornare in patria. Allo stesso modo Brunetto Latini, nel canto XV, sempre dell’Inferno, si spenderà in una terribile invettiva a scapito delle “bestie fiesolane” che si avventeranno contro il poeta e la sua virtù del ben fare, appoggiando la pena comminatagli.
Tuttavia sarà soltanto l’avo Cacciaguida, nel Paradiso, a chiarire i dubbi suscitati da queste e altre profezie presenti Dante_Alighieri's_portrait_by_Sandro_Botticellinel testo. Il canto XVII illustra infatti una riflessione compiuta su questo tema così poetico, a partire dall’enumerazione dei dolori che l’esilio costringerà il poeta ad affrontare: l’abbandono degli affetti più cari, l’amarezza di dover elemosinare l’ospitalità nelle corti signorili e la compagnia scempia degli altri Bianchi, la quale lo indurrà far parte per se stesso. Tuttavia vi è un elemento positivo in tutta questa situazione, secondo Cacciaguida, e cioè il fatto che il poeta saprà resistere ai colpi della sorte avversa e s’infutura la sua fama presso i posteri, poiché egli ha il sommo compito di banditore della verità, lo strumento divino di riscatto del peccato umano. L’exul immeritus ha, quindi, ancora la speranza di tornare in patria, rievocata come il bello ovile, con il capo circondato dell’alloro poetico, anche se essa appare troppo lontana in virtù della situazione contingente. Fiorenza è, infatti, il regno della discordia e del vizio, talmente corrotta da apparire un’ esecrabile inferma che ritiene di poter guarire cambiando senza posa leggi e cittadini. Essa si è ormai tramutata in un exemplum negativo di violenza e ingiustizia terrene che caccia in malo modo gli uomini saggi, onesti e desiderosi di pace. La città è colpita dal vizio peggiore di tutti: l’ invidia , mediante la quale, già in passato, ha perseguitato anime attive come Pier delle Vigne (Inferno, canto XIII) e Romeo da Villanova (Paradiso VI), ma è, allo stesso tempo, una spietata e perfida noverca, una città matrigna che ha esiliato il proprio figlio giusto e innocente, costretto a mangiare il “pane altrui” che “sa di sale” e lo ha ridotto a mendicare la propria vita “frusto a frusto”; o, in altri termini, secondo quanto egli dice in Convivio I, 3, 5:

Veramente io sono stato legno sanza vela e sanza governo, portato a diversi porti e foci e liti dal vento secco che vapora la dolorosa povertade; e sono apparito a li occhi a molti che forseché per alcuna fama in altra forma m’aveano imaginato, nel conspetto de’ quali non solamente mia persona invilio, ma di minor pregio si fece ogni opera, sì già fatta, come quella che fosse a fare.

Eppure questa condizione di mendicante – e di sofferenza beninteso- non priva Dante della sua dignità intellettuale e quindi di uomo, in quanto la sua poesia, che non giungerà mai a compromessi, gli renderà una grandezza poetica, di cui peraltro mostra di essere pienamente consapevole, che squarcerà il silenzio della menzogna come un grido (accogliendo una nota metafora biblica vox clamantis in deserto, Marco 1, 1-3). La poesia, dunque, dopo molte profezie, diviene essa stessa parola profetica, ammonimento per i potenti e, in quanto immortale, contribuirà a riformare la degradazione e la corruzione che hanno ferito ed esiliato il poeta. Si può scorgere, in questo senso, un debito ingente nei confronti del mondo classico, che Dante conosceva in traduzione latina (ricordo che non sapeva il Greco), quello della perpetuazione della propria poesia attraverso la fama -il kléos, in termini omerici- che si pone in ultima istanza come l’unica ancora di salvezza rispetto a una realtà che si rifiuta categoricamente di conoscere la verità e accetta, viceversa, la menzogna.