Claudia Giovannini
pubblicato 6 anni fa in Letteratura

Elias Canetti: “Massa e Potere”… e solitudine

la figura del potente tra comando e paranoia

Elias Canetti: “Massa e Potere”… e solitudine

Elias Canetti (1905-1994), scrittore bulgaro naturalizzato britannico, impiegò 38 anni della sua esistenza per assicurare un’imbracatura adeguata a due termini troppo pesanti per venir sollevati da mano umana: nel ventre di questo titanico sforzo prese forma Massa e Potere, saggio di rara maestria pubblicato per la prima volta nel 1960. Una serie sconfinata di miti e immagini compongono il diorama di quest’opera monumentale, tuttavia è impossibile non notare come, in mezzo a concetti che a loro modo evocano grandezza e moltitudine, inceda grottesca la presenza della solitudine.
Il potere trova difatti la sua espressione in una delle figure più efficaci, quella del direttore d’orchestra. Egli sta in piedi, e sta in piedi da solo, in posizione elevata e vistosa è in grado di abbracciare con lo sguardo l’intera orchestra, e soltanto con un colpo di mano o di bacchetta è in grado di impartire ordini; avendo l’attenzione di tutti i musicisti, questi ultimi sono tenuti a obbedire nel loro essere massa, o non si avrebbe musica alcuna. Ma, cosa più importante:

Il fatto che ciò accada pubblicamente, dinanzi agli occhi di tutti in ogni particolare, conferisce al direttore d’orchestra una speciale coscienza di sé. Egli si abitua ad essere costantemente guardato, e gli riesce sempre difficile farne a meno.

Senza orchestra, certo, il direttore non avrebbe nessuno sul quale esercitare il proprio potere. Nondimeno egli è despota ben più feroce di un altro tipo di massa, gli spettatori. Costretti a restare seduti immobili, il direttore li ha piegati senza dir loro una parola, al contrario volge loro le spalle, trionfando soltanto grazie allo scroscio di applausi in conclusione del suo operato; egli è colui che tutti sin dall’inizio hanno seguito e osservato in qualità di testimoni. Se si volesse fare un paragone fisico, lo si assocerebbe ad un sacerdote durante una messa prima del Concilio Vaticano II: l’altare non era ancora posto nel presbiterio in posizione avanzata, ma attaccato alla parete di fondo, tale che il sacerdote potesse dare le spalle ai fedeli ed esserne così il pastore guida. Con l’immagine del direttore d’orchestra, più che sui comandi che egli impartisce, sembra emergere l’importanza che ha la massa in quanto testimone condotto verso ciò che il potente dice e fa. Onnisciente sui musicisti così come sul pubblico, egli è l’unico capace di farlo, è la solitudine a renderlo celebre. Ma che senso avrebbe il suo potere senza nessuno che dopo ne parli, senza nessuno a serbarne il ricordo?

Chi è potente al grado massimo è quello che Canetti chiama il sopravvissuto. Egli è scampato alla morte, è rimasto da solo in piedi mentre gli altri cadevano; avendo combattuto con successo, egli brama di vivere ancora, vuole che si sappia della sua vecchiaia e della sua stirpe ancora integra per merito suo. È un potente, non perché forza o sottomette le genti, ma perché è stato il migliore: essendosi salvato, si sente un eletto. Tuttavia, la paura di non sopravvivere, di perire come qualsiasi altro lo getta nella più cruda paranoia, ed è allora che il potente cerca con tutte le sue forze di tenere a distanza la morte: il vuoto che si è creato attorno pare risucchiarlo, nessuno può minacciarlo in quella solitudine asettica, e questo è possibile solo se egli a sua volta uccide chi tenta di avvicinarsi. L’aspetto interessante di questa seconda figura sta nel fatto che il sopravvissuto, nel caso limite della paranoia, arriva a procacciarsi la sua stessa solitudine, a esser pronto a dare la morte pur di mantenere se stesso in vita. Il suo unico pensiero lo rende potente e schiavo, il migliore e disperato: restare da solo implica tutto fuorché la libertà.
Il potere non si ha, ma si esercita, e secondo Canetti questo avviene per mezzo del comando. Come una spina si ficca nelle carni di un uomo, così il comando giunge inaspettato da una mano estranea e di certo più forte, per restare in profondità fintantoché il comando viene eseguito; esso non ammette repliche o contraddizioni fin dal momento in cui, ancora bambini, ci viene impartita un’educazione, e qualsiasi altro obbligo non potrà che sommarsi all’accumulo di spine sulla schiena di ognuno. Tristemente allora esala la pretesa umana di scrollarsi di dosso tutte le spine che vanno e vengono nel corso della nostra esistenza.

Solo il comando eseguito fa rimanere la sua spina in chi vi ha obbedito. […] «Libero» è solo l’uomo che ha imparato a non rispettare gli ordini, e non quello che se ne libera soltanto in un secondo tempo. Ma certamente il meno libero è colui che impiega maggior tempo per liberarsene, o che addirittura non vi riesce.

A tal proposito, uno degli aneddoti più tremendi e fascinosi dell’opera conduce alla complessa figura del sultano di Delhi Muhammad Tughlak. Acculturato e sanguinario, giustiziere paranoico, arriva un dato momento in cui i cittadini insoddisfatti prendono a inviargli lettere di protesta colme di insulti e spregevoli offese; così Muhammad Tughlak, volendoli punire, da un giorno all’altro obbliga letteralmente tutti gli abitanti di Delhi ad abbandonare la città e trasferirsi nella lontana Daulatabad con la sola forza delle loro gambe.

In una Delhi ormai vuotata di ogni forma di vita, il sultano si affaccia dal tetto del suo palazzo e lì sa che il suo cuore e la sua collera possono finalmente placarsi – quando la massa verrà fatta rientrare nella città, sarà l’inizio della disfatta. Una bellissima immagine, questa, che racchiude un significato enorme: Muhammad Tughlak è il sopravvissuto per eccellenza, colui che con un comando repentino non si guadagna la solitudine, ma la ottiene senza che nulla gli sia d’intralcio. Ciononostante, è più che mai lecito chiedersi se sia stato davvero lui a obbligare la sua gente all’esodo, o piuttosto quest’ultima che, a forza di ingiurie, abbia spinto il sultano non a liberarsi, ma a rinchiudersi per poter affermare appieno la propria onnipotenza.

In Massa e Potere, Elias Canetti parla ai suoi lettori con predace violenza; ad una ad una va strappando tutta una serie di convinzioni ormai sclerotizzate nella mente più comune, e intanto il suo merito più grande resta sempre la sua scrittura, la quale non dimentica nemmeno per un istante che prima di ogni massa, prima di ogni potere, è anzitutto di uomini che in fondo si parla.

Bibliografia

Elias Canetti, Massa e Potere, Adelphi, 1981, (17° ed.).

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