Culturificio
pubblicato 6 anni fa in Letteratura \ Recensioni

F. Scott Fitzgerald e l’Italia

di Antonio Merola

F. Scott Fitzgerald e l’Italia

«(Alla fine penso di aver scritto qualcosa di veramente mio), ma quanto valga questo “mio” è tutto da vedere», così scrive F. Scott Fitzgerald a Max Perkins, suo editor e amico, nell’ottobre del 1924 e oggi, quasi un secolo dopo, l’autenticità e la grandezza di quel valore sono ancora intatte. La prosa fresca ed elegante di Fitzgerald è giunta fino a noi nonostante i corsi e ricorsi della critica, i fraintendimenti e le demolizioni.

Frivolo, mondano, dissoluto sono solo alcuni degli aggettivi che hanno descritto il mito di un uomo che era diventato il rappresentante dell’Età del jazz. Un mondo dorato e fasullo che lo scrittore americano aveva cercato di sedurre e la cui conquista gli è costata un’immagine di cui non è mai riuscito a liberarsi, nemmeno dopo che tutti si erano dimenticati di lui. Siamo stati abituati a immaginare il brillante e raffinato Fitzgerald con un bel vestito e un bicchiere di gin in mano, una fantasia che per troppo tempo ha affascinato e respinto critici e lettori impedendogli di vedere come a formare la forza e l’originalità della sua scrittura siano state soprattutto la sua umanità, la sua pazienza, la sua stupefacente perseveranza, ma, soprattutto, l’amore tenace per una donna.
Lo ha capito bene Antonio Merola che nel suo saggio Fitzgerald e l’Italia, edito da Landolfi, non solo ripercorre la storia della ricezione critica del romanziere ma ci dà la sua chiave di lettura. L’opera di Fitzgerald ha retto la forza d’urto di una fortuna capricciosa, di giudizi feroci e volubili e di una vicenda editoriale decisamente complessa che in Italia coinvolse alcuni dei maggiori intellettuali che nel Novecento si sono occupati di letteratura americana. Da Elio Vittorini che considerò Fitzgerald un minore, relegandolo nella sua antologia Americana alla sezione Eccentrici, una parentesi, a Fernanda Pivano, cui molto dobbiamo se alla fine siamo riusciti a non farci accecare dal bagliore della leggenda che precedeva un uomo a cui la fama interessava innanzitutto per provvedere alla sua famiglia e continuare a lavorare. Merola non si sottrae al dibattito: il suo punto di vista si attiene al Fitzgerald intimo, al modello nella cui opera finisce con il trovare le affinità e le fratellanze, colpisce, infatti, la complicità del critico con lo scrittore esaminato. Questa complicità è supportata da una scrupolosa bibliografia che è la solida base dei concreti motivi, delle scelte e delle sfumature del pensiero di Merola.

Lontano dall’immagine patinata che ne offriva la stampa c’era uno “sgobbone” (così si definiva Fitzgerald) pronto a spendere tutto il suo talento per la moglie, per questo non possiamo comprendere pienamente la sua opera senza tenere conto della sua biografia. Un’opera che si propone non come l’affresco di una società, ma, con le parole di Merola, come «il ritratto fedele di se stesso che si muove in quella particolare società» e se c’è una doppiezza in Fitzgerald è da rintracciare tanto nel rapporto con la ricchezza e la sua dipendenza con la felicità quanto nel rapporto con Zelda Sayre. Figura dominante in cui si realizza la coincidenza tra conservazione e distruzione, lo stesso Fitzgerald scriverà dell’immensa influenza che hanno avuto su di lui «l’assoluto, raffinato e totale egoismo e la gelidità mentale di Zelda». E sebbene la pagina sia l’unica cosa che davvero conti, non possiamo non riflettere con Antonio Merola sul nodo indissolubile tra letteratura e vita e sul suo invito a una “critica empatica” che percorra la produzione dell’autore nella sua interezza.

(A. Merola, F. Scott Fitzgerald e l’Italia, Landolfi, 2018, 96 pp., 10 euro)

 

Articolo a cura di S. Cammertoni.