Culturificio
pubblicato 8 anni fa in Letteratura

L’avanguardia della macchina nella terra del folklore: il Futurismo a Napoli

i meriti e le dinamiche di un’alternativa al Marinettismo

L’avanguardia della macchina nella terra del folklore: il Futurismo a Napoli

È prassi diffusa conoscere il Futurismo come la prima avanguardia storica del ‘900; è altrettanto diffuso associare la totalità delle sue manifestazioni ad un solo uomo, Filippo Tommaso Marinetti, e ad un solo luogo, la città di Milano. Marinetti è il fondatore del Futurismo. È anche senza dubbio la più influente delle personalità che hanno contribuito al suo sviluppo e alla sua fortuna. Allo stesso modo, le caratteristiche ideologiche del movimento (dalla modernolatria all’esaltazione della velocità, dal mito della macchina al progressismo esasperato) potrebbero lasciar pensare che il Futurismo non sarebbe potuto essere altrove dalla città più industrializzata d’Italia, Milano appunto.
Tuttavia, il pantheon dei protagonisti del movimento si compone di altri nomi e la sua geografia di altri luoghi; alcuni, come Firenze, più conosciuti – abbastanza nota è la rivista fiorentina Lacerba e la parentesi futurista dei suoi caporedattori Papini e Soffici -, altri, come Napoli, meno sospettabili. In sostanza, non sono mancati in seno al movimento declinazioni alternative al Marinettismo, la componente personale ed egemonica del fondatore, contributo fondamentale ma non esclusivo all’interno di una struttura plurale, variegata e variopinta.
A proposito di Napoli, l’inevitabile domanda da porsi è quali possano essere stati i punti di contatto tra l’avanguardia della modernità, della meccanica, della velocità, del ferro e dell’acciaio e la città italiana che, per la sua proverbiale passionalità e goliardia, rappresenta l’anti-Milano per eccellenza. Le peculiarità di questa variante regionale: il Futurismo a Napoli non rifiuta il preziosissimo ed unico sostrato culturale locale – così lontano da quello milanese – e, anzi, lo fa pienamente suo. La Napoli dei primi decenni del ‘900 è un mondo contradditorio, segnato da forti differenze e popolato tanto da élites aristocratiche chiuse e severe quanto da classi popolari rumorose col loro linguaggio colorito e con la loro innata teatralità. In questo contesto, il Futurismo diventa l’ideale portavoce dello spirito di cambiamento e dei fermenti creativi meno convenzionali. Tutto questo per merito, fondamentalmente, di un unico personaggio: Francesco Cangiullo. Il destino dell’avanguardia campana è infatti intrecciato indissolubilmente a quello di colui che probabilmente merita di essere considerato l’unico futurista napoletano in grado di dare un contributo creativo alla causa del movimento:
220px-Francesco_CangiulloPersonalità dal temperamento artistico esuberante e precoce, Cangiullo predilige il contatto con la strada allo studio rigoroso e disciplinato, trovando nelle polemiche radicali del Futurismo contro l’accademia, il museo, la biblioteca un fortissimo incoraggiamento al suo modo anticonformista di essere intellettuale. Negli anni che portano fino alla conclusione della guerra mondiale è pienamente integrato nello “stato maggiore” dell’avanguardia, trovandosi spesso coinvolto nelle attività del fondatore Marinetti, di cui è segretario, spalla e consigliere fidato. Dal punto di vista strettamente letterario, realizza opere di grande sperimentazione contenutistica, linguistica e tipografica come Le coccottesche e Caffèconcerto, che meritano almeno una citazione tra le opere futuriste più interessanti. Tuttavia, è probabilmente il poema parolibero Piedigrotta la sua opera più significativa; il poema è la traduzione onomatopeica – una cronaca alla Zang Tumb Tumb, per intenderci – della celebre festa popolare napoletana che prende il nome dal quartiere che annualmente la ospita: una “scanzonata fiera di canzoni, luci, festoni, mozzarelle e pirotecniche detonazioni”.150038_3 Il testo è composto da una raccolta di tavole parolibere di grande sperimentazione tipografica attraverso cui l’autore intende descrivere lo spirito goliardico e tumultuoso dell’evento, quello che Mario Verdone ha chiamato “una specie di immenso saturnale locale che cancellava ogni sorta di differenza tra le classi sociali”. Nell’opera, grande importanza è dato all’aspetto musicale dell’evento: gli strumenti tipici del folklore napoletano come il Putipù, lo Scetavaiasse e il Triccheballacche, espressione di una musicalità popolare tradizionale, si umanizzano ed animano i cortei che dai punti più vari della città convergono a Margellina-Fuorigrotta.
Quello che Cangiullo mette in atto con Piedigrotta è il recupero della cultura del vicolo riletta in virtù dell’ideologia futurista e anche delle sue provocazioni linguistico-letterarie. Un’opera in sostanza – ed è probabilmente il suo più grande merito – allo stesso tempo totalmente futurista e totalmente napoletana, senza che questo possa sembrare una contraddizione. Se fosse quindi necessario trovare la principale caratteristica della poetica di Cangiullo, essa sarebbe la tendenza ad identificarsi con il mondo e con i valori più veraci della Napoli popolare, con il suo Futurismo innato, naturale e spontaneo.
Alla fine della prima guerra mondiale, conclusa la stagione “eroica” del movimento, Cangiullo si allontana dal progetto artistico di un Futurismo “imborghesito” ed “istituzionalizzato”, a cui va sempre più mancando lo spirito incendiario e rivoluzionario, a fronte di una sempre più evidente compromissione con il Fascismo. Il distacco, oltre che da queste ragioni ideologiche, è motivato anche da questioni più personali: egli si trova ora in una posizione di isolato superstite del gruppo della prima ora, essendo morti Boccioni e Sant’Elia ed essendosi altri, come Palazzeschi, Papini e Soffici, definitivamente defilati. Con l’abbandono del movimento da parte di Cangiullo si dissolvono i già deboli legami tra il Futurismo e gli ambienti artistici e culturali napoletani, che non hanno saputo dare vita ad interpretazioni futuriste diverse dalla sua versione “burlesco-popolare”; la sua personalità e il suo carisma lo hanno imposto sulla scena culturale della sua città come un nuovo e diverso Marinetti: nuovo a causa del ruolo imprescindibile da lui giocato nel contesto del Futurismo campano, diverso per la personale interpretazione che egli stesso dà all’ideologia del movimento. Sarebbe tuttavia scorretto immaginarlo come un divergente, o più ancora come un eretico: la “monelleria”, lo spirito giocondo che permea ogni opera di Cangiullo, non è contraria all’ortodossia del movimento, è anzi tipicamente futurista e trova continuità con altri esponenti, basti pensare a Palazzeschi. L’orientamento e il ruolo che Cangiullo si è scelto all’interno dell’avanguardia è coerente con le sue radici culturali e con quei valori su cui è prosperata la ormai classica categoria della “napoletaneità”: la forza tutta napoletana del suo modo alternativo di essere futurista risiede nel suo istinto profondamente ludico, privo di serietà, o meglio, di gravità, che ha saputo donare al movimento una nuova prospettiva con la sua arte gioiosa, ottimista e spensierata.

Per Cangiullo il Futurismo non ebbe mai una forte dimensione ideologica. Per lui non si trattava di fare la rivoluzione e di scompigliare l’Italia. Si doveva solo liberare la creatività per fare dell’arte una festa e della fantasia un mezzo per arricchire la vita. Il valore supremo del programma futurista di Marinetti, cioè il dinamismo, si identificava per lui con la risata come energia liberatrice


 

Riferimenti bibliografici:
AA.VV., Marinetti e il Futurismo a Napoli, Roma, De Luca, 1996.

Articolo a cura di Dario Cerutti