Andrea Talarico
pubblicato 5 anni fa in Letteratura \ Recensioni

Il Perdono della luna

di Endre Ady

Il Perdono della luna

Figli di un dio minore. Un po’ ad effetto, forse: plateale, anche. È comunque un’espressione calzante per ‘etichettare’ (non che sia un bene, piuttosto un male necessario) tutti quei grandi autori che si trovano a scrivere in una lingua ‘minore’ (altra definizione di comodo per indicare una lingua che sia semplicemente meno diffusa e/o studiata di altre); è il caso di Endre Ady, uno dei più importanti poeti in lingua ungherese.

Nasce nel 1877 a Érmindszent (villaggio che ora porta il suo nome, Ady Endre, e fa parte del comune di Çauas, nell’attuale Romania), di famiglia calvinista, calvinista è anche la sua educazione. Durante i suoi studi sviluppa un convinto ateismo, una profonda affezione per la lingua e le tradizioni magiare e un forte interesse per le tematiche sociali e civili. La sua prima raccolta di poesie risale al 1899, con l’artista appena diciannovenne, ma gli anni più ferventi della sua attività si concentrano tra il 1906 (con la raccolta Nuove poesie) e il 1918 (Alla testa dei morti); nel 1919 Ady muore di sifilide dopo anni di vani tentativi di curare la malattia. Le ultime parole che risultano scritte di suo pugno risalgono al 23 ottobre 1918: sul dorso di una vecchia Bibbia che il poeta leggeva da bambino sono annotate le parole: «Eli, Eli, lamà sabachtani» («Signore, Signore, perché mi hai abbandonato»).

Sulla produzione poetica degli anni tra il 1906 e il 1919 si concentra l’edizione curata da Gabriella Caramore, con traduzioni della stessa Caramore e di Vera Gheno, pubblicata da Marsilio con il titolo Il perdono della luna; nell’edizione sono riunite le raccolte Nuove poesie (1906), Sangue e oro (1907), Sul carro di Elia (1908), Amerei essere amato (1909), Versi di tutti i misteri (1910), le poesie La vita che fugge (1912), L’amore di noi stessi (1913) e ancora le raccolte Chi mi ha visto? (1914), Alla testa dei morti (1918) e Le ultime navi (pubblicata postuma nel 1923).

Il valore della poesia di Ady era riconosciuto in patria già in vita: tra i suoi estimatori figura il nome, non da poco, di Giörgy Lukács. Nell’impossibilità di riassumere in poche righe l’essenza dell’opera poetica di Ady mi limiterò ad evidenziarne gli aspetti più straordinari. Tra questi spicca senz’altro l’importanza del paesaggio, in questo caso la steppa magiara, che in Ady diventa a tutti gli effetti soggetto della poesia, e anzi uno dei “personaggi” che più spesso ricorrono nell’opera, come in questo breve componimento Sul maggese ungherese:

 

Percorro una distesa selvaggia:

sull’antica terra fiorente, ora gramigna e sterpaglia.

Conosco questo campo selvatico:

è il maggese ungherese.

 

Mi chino sul sacro terriccio:

sulla terra intatta qualcosa di guasto.

Ehi tu, erbaccia al cielo protesa,

dov’è finito il fiore che c’era?

 

Da viticci selvaggi accerchiato,

spio l’anima sopita della terra.

Profumo di fiori da tempo appassiti

mi seduce, stordisce.

 

Silenzio. Gramigna, sterpaglia e malerba

mi copre, stordisce, mi abbatte.

Un vento soffia alto, sghignazza

sul grande maggese ungherese.

 

Proprio il silenzio è uno dei temi della raccolta, Silenzio che diventa personaggio, protagonista sottinteso o dichiarato di diversi componimenti, come Al cospetto del principe buono Silenzio:

 

Cammino nel bosco sotto la luna.

Mi battono i denti, fischietto.

Alle mie spalle, alto, un colosso:

il principe buono Silenzio;

e guai a me se indietro mi volto.

 

Guai a me se tacessi,

o guardassi lassù, verso la luna.

Un gemito, uno schianto.

Un solo passo, e il principe buono, Silenzio,

già mi avrebbe schiacciato.

 

Grandi protagonisti dell’opera poetica di Ady sono, però, i temi che più ha avuto a cuore (e con cui più si è trovato in conflitto) nel corso della sua vita: il patriottismo, profondamente sentito da Ady come un bisogno di riscoprire e valorizzare la ‘magiarità’ nei costumi e nella tradizione (patriottismo che però mal si accordava con la deriva nazionalista che conquistava pian piano l’opinione comune in Ungheria: anzi Ady si schierò apertamente contro la corrente interventista alla vigilia della Grande Guerra), che portò alla composizione di poesie come il Canto di un giacobino magiaro e Mia odiosamata nazione da un lato, e il sentimento religioso dall’altro: la religiosità di un ateo che si è formato studiando i libri sapienziali e gli insegnamenti dei profeti biblici, che hanno lasciato in lui e nella sua poesia un segno profondo, come nel componimento A margine del libro di Isaia, o nel suo Ore invece di vita, una risposta al Cantico dei cantici che da sola meriterebbe un confronto puntuale col testo biblico, ne riporto qui la prima strofe:

 

Cantico dei cantici, così io ti canto:

mai è venuta a me la mia sposa,

mai è venuta colei cui anelavo,

mai ho avuto successo nel tempo, denaro, né in guerra, né in pace;

mai un vero cuore di donna accanto al mio cuore;

nel mio più bel letto non arsero amori,

si sono stinte le sete delle mie vesti migliori,

i desideri più cari si sono avvizziti nel cuore.

 

Ady è un poeta straordinario, un uomo del suo tempo che è riuscito a plasmare una poesia che, grazie al suo costante dialogo con il passato, è in grado di andare al di là del suo tempo e che può – e anzi, deve – essere letta, riletta e apprezzata ancora oggi da un pubblico ben più vasto di quello composto da soli ungarofoni.

Quest’ultimo punto pone, però, un problema non secondario: è possibile apprezzare pienamente una poesia concepita e scritta in una lingua diversa dalla propria? La poesia infatti è una forma d’arte che, molto più del romanzo, sfrutta tutta una serie di elementi del linguaggio (banalizzando, la formula è: conta quello che dico, ma ancora di più conta come lo dico) che quasi sempre si perdono nel corso di qualsiasi processo di traduzione, per quanto accurata essa sia.

Nel caso del nostro Perdono della luna, ad esempio, le traduttrici hanno svolto un lavoro difficilissimo e dai risultati veramente notevoli: da un sistema linguistico completamente diverso hanno infatti tratto delle poesie che sono esteticamente valide persino in traduzione, non solo curando l’estetica dei versi tradotti in italiano ma cercando di riproporre, nei limiti del possibile, un testo simile anche dal punto di vista metrico.

Eppure, inevitabilmente, molto della poesia originale viene perso nel passaggio da una lingua all’altra, persino nella migliore delle traduzioni. Premesso che chi scrive non capisce una parola di ungherese, ci sono considerazioni che possono essere fatte anche solo tenendo un occhio sul testo a fronte: solo per prendere degli esempi, in Sangue e oro (Vér és arany) i due termini che costituiscono il titolo della poesia sono ripetuti costantemente nelle varie strofi, sempre in quest’ordine, eccetto che nella terza strofe dove risultano invertiti per ottenere una rima: «A dics, a dal, a rang, a bér. / De él az arany és a vér»; nella traduzione, invece, i termini sono lasciati nell’ordine consueto per produrre una rima, seppure imperfetta, nel rispetto dello schema metrico originale: «gloria, canti, potere, denaro. / Ma sopravvivono il sangue e l’oro». Dio, l’inconsolabile (Isten, a vigasztalan) è concluso da Ady sulla parola Isten, Dio. È una chiusura forte per una poesia, fondamentale, che però ancora una volta ha dovuti essere sacrificato metri causa per riprodurre la rima nincsen:isten con sorgente:terrificante, come riporto di seguito:

 

Ő: a folyásnak akarója,                                 Egli è colui che vuole il fluire,

Melynek forrása s vége nincsen.                  che non ha fine e non ha sorgente.

Ő: Minden és vigasztalan,                             Egli è Tutto ed è inconsolabile,

Egyetlen és borzalmas Isten.                        un Dio unico e terrificante.

 

Nello stesso componimento di cui ho accennato sopra, Al cospetto del principe buono Silenzio (Jó Csönd-herceg előtt) per motivi di traduzione deve saltare addirittura la ripetizione del quarto verso delle due strofi,:

 

Holdfény alatt járom az erdőt.                   Cammino nel bosco sotto la luna.

Vacog a fogam s fütyörészek.                     Mi battono i denti, fischietto.

Hátam mögött jön tíz-öles                          Alle mie spalle, alto, un colosso:

Jó Csönd-herceg                                           il principe buono Silenzio;

És jaj nekem, ha visszanések.                    e guai a me se indietro mi volto.

 

Óh, jaj nekem, ha elnémulnék,                     Guai a me se tacessi,

Vagy fölbálmulnék, föl a Holdra:                 o guardassi lassù, verso la luna.

Egy jajgatás, egy roppanás.                           Un gemito, uno schianto.

Jó Csönd-herceg                                              Un solo passo, e il principe buono, Silenzio,

Nagyot lépne és eltiporna.                             Già mi avrebbe schiacciato.

 

Quelle che potrebbero sembrare questioni di lana caprina, se non addirittura deliri feticistici, sono in realtà considerazioni fondamentali da tenere presenti nell’approcciarsi a una poesia, specialmente se del valore di quella di Ady, scritta in una lingua che, per la maggior parte dei lettori italiani, sarà completamente estranea e che, malgrado gli sforzi (e i pregevoli risultati) dei traduttori rimarrà comunque, nel profondo, intraducibile.