Culturificio
pubblicato 6 anni fa in Altro

Uno, nessuno, centomila Faber

Uno, nessuno, centomila Faber

Sono cresciuto con qualche senso di colpa, atavico, primordiale. Un qualcosa di simile, credo, al peccato originale che chi ha la fortuna di credere si imputa da secoli a questa parte. Il mio peccato originale, quello che mi logora ogni qual volta pensi alla musica, alla letteratura, al leggere e allo scrivere, al guardare e sognare, al pregare e piangere, è quello di non aver vissuto nella stessa epoca storica di Fabrizio De André. Forse è proprio questa l’origine del peccato originale, quella di non esser vissuti nella stessa epoca storica di Cristo, o Dio, o Adamo ed Eva – ho fatto sempre molta confusione tra i concetti e le persone. A ben vedere, per me De André è ciò che più si avvicina a Dio. Non sono mai stato e mai sarò un esteta dell’iconoclastia, del leaderismo, del culto dell’eroe, della fascinazione da charme, sia questo poetico, letterario, musicale, estetico o politico.

Con De André, però, a ogni ascolto cresce in me la più grande discrasia, la più traditrice tra le contraddizioni che mi tengono in piedi. Lo vedo, in foto, in video e lo leggo e lo ascolto e lo sento e nasce e cresce ed evolve e cambia e cresce in me il culto di De André. Qualcosa che allo stesso De André farebbe schifo. Lo rivolterebbe prima per se stesso, per senso di responsabilità che non ha mai voluto né cercato. Lo ripudierebbe perché nessuno dovrebbe abbassarsi ai piedi della statua di qualcun altro. Sarà che è morto quando io ballavo la baby dance al campeggio, sarà la potenza espressiva, la perfezione metrica, la ricercatezza teorica, sarà la squisitezza filosofica. Saranno tutte queste cose, ma per me entrare al cinema questo strano e unico mercoledì freddo di Gennaio di quasi vent’anni fa, è stato come entrare in Chiesa in una Chiesa aperta per la prima e l’ultima volta proprio questo strano e unico mercoledì freddo di Gennaio che non è più di vent’anni fa, ma è adesso.

In una delle scene di Faber da bambino, il professore di religione cerca di spiegare cosa sia Dio. Dice che Dio sta nelle parole che cerchiamo per dire a qualcuno che lo amiamo, o a nostro padre che ci mancherà solo ora che ne sta andando. Dio è una parola, dice Fabrizio. Nulla più. E cosa è Fabrizio, se non parole? Non siamo che parole, non esistiamo che nelle parole. De André ci ha costruito una carriera, una vita, due amori, due figli, una casa in paradiso, qualcuna in terra, un sequestro, una morte guardata in faccia, due matrimoni, tre famiglie.

Di De André ce ne sono almeno quattro, dice Faber Marinelli nel film. Un padre di famiglia, un innamorato di un’altra donna, uno che non sa più cosa dire e un altro che giudica gli altri tre. Ma Luca Marinelli deve essersi ricordato che no, lui non è Faber, solo grazie alle tante interviste di promozione di Principe Libero. In una di queste, dice che di De André non ce n’è uno solo. Non ce ne sono nemmeno solo quattro. Ce ne sono molti di più. C’è un Faber per ognuno che lo ha amato, ascoltato, capito, vissuto. Lui, non ha potuto fare altro che vivere davanti alla telecamera quello che è stato De André per lui. Nel farlo, è riuscito in un ritratto di prosa e poesia insieme. Nel farlo ha riportato in vita Fabrizio per tutti, per poco più di tre ore. Sembrano tante, ma quando finisce non si muore un’altra volta, si torna solo dietro il suo sorriso, in un paradiso in campagna. Perché di canzoni divertenti nella discografia di De André ce ne sono poche, ma lui era uno che sapeva ridere. Lo dice Luigi Tenco, uno che all’odio e alla rabbia ha preferito la morte, uno che deve capirne per forza di chi sa ridere davvero.

Marinelli ha regalato a me – e a tutti quelli che hanno riempito i cinema per due serate orgogliose – la possibilità di morire e rinascere per tre ore nel 1940 e quindi vivere fino al 1999 fianco a fianco di Fabrizio. Le amicizie con Paolo Villaggio e Luigi Tenco, uno che era bello, impossibile e dannato e poeta perfino agli occhi suoi. La ricerca della Natura e dei bordelli, dei boschi e delle periferie, dei dialetti e della poetica in metrica perfetta. La timidezza nella potenza impavida delle parole, la fierezza storica della verità del sapere che non ne esiste una.

Per la sola ragione del viaggio, viaggiare. Con questo viaggio De André ci ha dato altri preziosi fiori, che nascono necessariamente dal letame. Il letame che ce l’hai dentro anche se tuo padre è ricco e notabile e mirabile e decide lui cos’è meglio per te e quello che decidi tu è una menata. Il letame che una vita non basta, che le parole non bastano, neanche se le canta Mina bastano le parole, se sono troppo banali, se non danno quello per cui sono state pensate. Il letame del male di vivere soffocato solo da litri di whiskey, chili di tabacco, mari di parole e sferzate di sorrisi e ondate di risate.

Quel peccato originale, uscito solo dalla sala, torna a piazzarsi in mezzo alle costole, s’inchioda tre volte nel legno, ti tocca il corpo con la mente. Confessarsi per qualche ora ha confermato che sì, con lui era meglio, con lui qualcosa da dire di più c’era. Senza di lui, occorre guardare ancora un po’ fuori per trovare qualcosa di nuovo e qualche modo nuovo di raccontarlo. Per farlo, basta continuare ad ascoltare Faber.


Articolo a cura di Simone Zivillica