Erica Gariboldi
pubblicato 5 anni fa in Cinema e serie tv

Boccaccio ’70

ovvero, quando lo scandalo è diventato banalità

Boccaccio ’70

Rivoluzione culturale, boom economico, liberalizzazione dei costumi e anacronistiche battaglie della vecchia morale. Così potremmo riassumere Boccaccio ’70 (1962), l’irriverente e dissacrante “scherzo in quattro atti” ideato da Cesare Zavattini. Alla regia dei singoli episodi quattro grandi maestri del cinema italiano: Mario Monicelli, Federico Fellini, Luchino Visconti e Vittorio De Sica.

Nel primo episodio, Renzo e Luciana, Monicelli mette in scena le peripezie di una coppia di giovani innamorati che, decisi a sposarsi, sono costretti a farlo in gran segreto dal momento che il contratto di lavoro di Luciana (Maria Solinas) le vieta espressamente di contrarre nozze. Tra i molteplici risvolti della vicenda si aprono finestre nitidissime sulla dolceamara realtà degli anni ’60: le (apparentemente) infinite possibilità che la nuova fase di espansione economica sa offrire vengono mostrate attraverso la gabbia delle loro contraddizioni. Così il prezzo per una vita coniugale “normale”, allo scoperto e nell’intimità di una casa che non sia condivisa con genitori e sorelle è lavorare tutto il giorno (lei) e tutta la notte (lui) e incontrarsi all’alba per scambiarsi un frettoloso buongiorno (o buonanotte) in cui l’unico argomento di conversazione è, ovviamente, il denaro. Emblematica la battuta che chiude l’episodio, pronunciata da Luciana appena prima di uscire:

Domenica… domenica restiamo tutto il giorno in letto. Che meraviglia!”.

Il vivace e coloratissimo affresco monicelliano di una Milano in nuovo fermento ci lascia distintamente percepire i primi sinistri vagiti di quella società dei consumi di cui ai tempi ancora in pochi immaginavano le potenzialità e, soprattutto, le minacce. 

Renzo e Luciana è l’unico episodio di Boccaccio ’70 che non affronta in modo diretto la tematica della liberalizzazione dei costumi, centrale invece nei tre atti seguenti e motore stesso della trama nel secondo: Le tentazioni del dottor Antonio è una piccola perla felliniana, una sorta di tributo alla dolce vita a lui tanto cara e ancora troppo demonizzata da una certa società, dolce vita incarnata magistralmente, ancora una volta, dalla bellissima Anita Ekberg. È lei la donna procace e ammiccante ritratta sul manifesto che tormenta i sogni del povero dottor Antonio Mazzuolo (Peppino de Filippo), intransigente moralista impegnato giorno e notte in un’ insensata lotta contro un cambiamento, quello del comune senso del pudore negli anni ’60, che fatica a riconoscere come inevitabile ma che finirà, suo malgrado, per travolgere anche lui. L’episodio è ambientato a Roma, sfondo perfetto per gli onirici e pittoreschi campi lunghi felliniani.

L’atto più conosciuto, discusso e forse significativo del polittico è il terzo, ovvero quello viscontiano, intitolato Il lavoro. Pupe (Romy Schneider) e il conte Ottavio (Thomas Milian) sono sposati da poco più di un anno quando esplode lo scandalo, spiattellato sulle prime pagine di tutti i rotocalchi, del coinvolgimento di Ottavio in un giro di ragazze-squillo. La reazione composta e raffinata della giovane contessa nasconde una ferita profonda che sfocerà in una soluzione di compromesso tutt’altro che convenzionale. Graffiante satira sociale della nobiltà milanese (classe di appartenenza di Visconti stesso) in forma di elegante parodia, il tutto meravigliosamente condito con un’esplicita volontà di sfida da parte del regista all’organo della censura cinematografica, Il lavoro condensa e addirittura esplicita a parole (quelle in particolare di una battuta della protagonista) non solo il senso che permea l’intera pellicola, ma anche e soprattutto il sentire profondo di una società che muove a passi spediti verso la modernità:

Avvocato, ma cosa pensa, che io abbia la mentalità di una borghesuccia di provincia? Senza contare che neppure le borghesucce ce l’hanno più. E’ finita! Ah, sì è vero. La gente oggi legge caro, va al cinema e fanno tutti esattamente le stesse cose: gli aristocratici, gli intellettuali, i ragazzini della Ghisolfa… ma no via, non venitemi a parlare di scandalo. Parliamo piuttosto di banalità, non le sembra?

Con il quarto e ultimo atto, La riffa, Vittorio De Sica chiude il sipario in un clima da perfetta commedia all’italiana, cui contribuisce notevolmente l’interpretazione di Sophia Loren nei panni della protagonista (Zoe), bella e desideratissima titolare di un baraccone di tiro a segno, che, per incrementare i suoi guadagni, è solita offrirsi come premio speciale in una lotteria clandestina. Il tema musicale del mediometraggio (Soldi soldi soldi di Betty Curtis) è continuamente canticchiato da Zoe, inserendo perfettamente la sua vicenda e, di riflesso, quella di tutti i personaggi del polittico, nella cornice metaforica che lega tra di loro queste moderne novelle di impostazione boccacciana. Una nuova peste dirige le azioni e ossessiona la mente di uomini e donne provenienti da ogni classe sociale: il desiderio di guadagno.

A questo punto sorge spontanea una domanda: se la pellicola è realizzata e ambientata nei primissimi anni ’60, perché “Boccaccio ’70?” L’Italia scherzosamente dipinta in questi quattro affreschi è un paese tutto rivolto al futuro e che a questo futuro, percepito come già in atto, guarda in un modo che noi oggi non conosciamo più. Escludendo per un momento l’episodio di Visconti, il cui sguardo disincantato e disilluso sulla realtà ammetteva ben poche eccezioni, Monicelli, Fellini e De Sica ci raccontano di una generazione che si aspettava di vivere meglio dei propri genitori e che i propri figli avrebbero vissuto meglio di lei. Oggi la tendenza non è più questa e la visione di Boccaccio ’70 non può che suscitare in noi un misto di fascino e tenerezza per l’entusiasmo genuino di un paese intero che andava alla conquista del sogno americano a bordo di una Seicento nuova di pacca. Le minigonne e gli abiti succinti mostravano per la prima volta, sui manifesti e nella quotidianità, tutto ciò che per troppo tempo si era dovuto tenere nascosto e l’urlo allo scandalo diventava rapidamente un anacronismo. Di tutto ciò la lungimiranza che da sempre caratterizza la penna (o la macchina da presa) dell’artista sa mostrarci tra le righe i pericoli e le contraddizioni; eppure, godendosi lo spettacolo dei gloriosi anni ’60, pochi di noi non si troverebbero a pensare, almeno una volta, avrei voluto esserci anch’io.

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– Nel terzo episodio Visconti dà alla protagonista il nomignolo (Pupe) della propria ex fidanzata austriaca, grande amore di gioventù, la principessa Irma Windisch-Graetz, accentuando così il carattere autobiografico dei contenuti. I due si conobbero nel 1934 e si lasciarono dopo un solo anno di fidanzamento per contrasti tra la famiglia di lei e il regista; quest’ultimo descriverà la storia con Pupe come

un grande amore, una tempesta, una meravigliosa esperienza.

– La bellissima interprete di Pupe, Romy Schneider, iniziò nel 1958 una relazione sentimentale con Alain Delon (tra le sue apparizioni più importanti ricordiamo quelle in Rocco e i suoi fratelli e nel Gattopardo, entrambi per la regia di Visconti) insieme al quale visse a Parigi fino al 1964, quando i due si lasciarono. Da qui la sua vita sentimentale divenne tormentata e complicata e il fallimento di entrambi i suoi matrimoni causò un progressivo peggioramento della sua dipendenza da alcool e l’insorgere di una grave depressione. Nel 1981 subì inoltre un gravissimo lutto, perdendo il figlio quattordicenne a causa di un tragico incidente; questo episodio contribuì ad aggravare le condizioni già estremamente critiche della Schneider, che l’anno successivo fu trovata morta nella sua abitazione alla giovanissima età di 43 anni. Dopo la sua scomparsa Delon le indirizzò una lettera considerata tra le più belle dichiarazioni d’amore del ‘900.

Le musiche de Il Lavoro e Le tentazioni del Dottor Antonio sono state composte da Nino Rota, autore di numerosissime colonne sonore tra le più famose di sempre, tra cui ricordiamo quelle de Il Gattopardo (Visconti, 1963), La dolce vita (Fellini, 1960), 8 ½ (Fellini, 1963), Amarcord (Fellini, 1973), Il padrino e Il padrino parte II (Coppola, 1972 e 1974).

– Il primo atto, Renzo e Luciana, è tratto da un racconto di Italo Calvino (L’avventura di due sposi, 1958) ed è lo stesso Calvino, insieme a Suso Cecchi D’Amico, a sceneggiarlo.

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