“Il Tullio e l’eolao più stranissimo di tutto il Canton Ticino” di Davide Rigiani
Intanto si può già dire che tutto era cominciato la sera in cui il papà del Tullio aveva trovato un bruco geometra nell’insalata. Era agosto, un venerdì. Quel giorno il Tullio compiva dieci anni. Il bruco geometra in questione era un cosino piccino picciò, verde, lungo meno di un centimetro, sottile come il gambo di una margherita. Percorreva la foglia di lattuga con quel suo incedere da compasso, allungandosi e accorciandosi. Sembrava davvero che stesse prendendo le misure all’insalata.
Tutti abbiamo un cane, un gatto, un pesce rosso, un pappagallo, un coniglio, un criceto, ma solo Tullio, soltanto lui, che ha dieci anni e frequenta la quinta elementare, e che pure è timido e vorrebbe passare inosservato, ha un eolao. Che squimbrottola, fermenta, mangia i biscotti e il dentifricio con la doppia azione sbiancante, che profuma la casa e fa le bolle di sapone e da bruco geometra cresce, muta, starnutisce: gli fioriscono le orecchie a trombetta e le antenne e le piume e gli occhi e birulini vari che poi si perde per strada. E gli spunta un becco, due becchi, e canta l’eolao, e cantando scombina le frasi che si dicono tra loro i signori Ghiringhelli, i genitori di Tullio, facendo scappare chissà dove Mentre, Siccome, Dopodiché, Inoltre, Ogniqualvolta, che sono i nomi dei gatti dei signori Ghiringhelli. Perché in questo romanzo, scritto da Davide Rigiani e intitolato Il Tullio e l’eolao più stranissimo di tutto il Canton Ticino, pubblicato da minimum fax nel 2022 (menzione speciale del Direttivo del Premio Calvino, Premio Letterario Giuseppe Berto 2022, finalista del Premio Campiello Junior 11-14 anni), sono tutti un po’ svitati.
L’arrivo dell’eolao, d’altronde, non scombina soltanto la famiglia di Tullio, già abbastanza strampalata, ma anche Monsieur Bertrand, il professore di matematica, o meglio la sua calcolatrice, che durante l’ora di lezione asseconda le risposte sbagliate di Tullio garantendogli così, per una volta, la sufficienza. E oltre alla scuola, l’eolao squaderna l’intero vicinato, con le siepi che si tingono di rosa e perfino i colleghi di banca della signora Ghiringhelli, tanti vicevice e vicevicevice che finiscono con la testa incastrata dentro ai minibar del “Grand Hotel Imperial”.
Finché un giorno scompare, e iniziano a verificarsi una serie di buffi incidenti: una signora è portata via in ambulanza perché investita dai tempi che corrono, un uomo si presenta all’Ospedale Civico di Lugano con le stampelle e una gamba addormentata che russa, un signore inizia a fischiare con le orecchie e, insomma, non si capisce più bene cosa stia accadendo. L’intero Canton Ticino è in preda allo scompiglio, nessuno si raccapezza più e c’è chi fa notare che bisogna stare attenti a quel che si dice, alle frasi con cui ci si esprime, perché perfino il linguaggio, da quando l’eolao si è ammalato, è messo a soqquadro. Anzi, a “soqquadrissimo”.
È la grammatica della fantasia a innervare ovunque questo romanzo esplosivo, per grandi e piccoli: nella trama, nella lingua adottata, nelle otto tavole illustrate da Patrizio Marini, nel modo in cui prende forma l’immaginazione di Tullio, che è fervida e in continua evoluzione, eppure soggetta a periodi di inerzia, e dà sostanza concreta all’eolao, che prende vita e abita il mondo mandandolo in confusione. La storia che leggiamo non accade nella mente di Tullio, non è una sua proiezione: l’eolao esiste per davvero.
E come ne esiste uno potrebbero essercene altri, giacché esiste il suo plurale: eoleolaolai. D’altronde se esistono le parole devono esserci anche le cose, e anche se sembrerebbe che prima degli eventi raccontati nessuno, in tutto il Canton Ticino, abbia mai visto uno o più eoleolaolai, questi dovevano pur esserci perché, appunto, esiste il nome che li definisce, sì, ma non li contiene. Perché la fantasia, ed è questo uno dei più grandi meriti del romanzo, si alimenta soltanto se trova chi sia disposto ad accoglierla, a darla quasi per assodata. Qualcuno che la ponga, cioè, sul piano della realtà e la rilanci. È per esempio il ruolo della dottoressa Anita Amaranta Ramona Selvaggia Valeria Ingrid Kohlkapher, medico fantaveterinario.
Sebbene sia anche lei una svitata, ha sempre una spiegazione ovvia e razionale alle stranezze dell’eolao. E così se per esempio Tullio, allarmato, la chiama perché l’eolao starnutisce e gli cadono i pezzi per terra, lei non si stupisce di niente: sono cose che capitano, dice, però aggiunge subito che per farlo guarire occorre assolutamente sbucciarlo.
L’eolao tuttavia non è soltanto il correlativo oggettivo della fantasia di un bambino di dieci anni, e quindi un animale domestico, o meglio, l’estensione immaginifica di tutti gli animali domestici, ma funziona un po’ come un detonatore della tristezza, dell’egoismo del mondo contemporaneo, addirittura del capitalismo, tant’è che leggendo il libro, pieno di invenzioni e di fatti inconsueti ed esilaranti, emergerà come in definitiva a essere stranissimo non sarà ciò che accadrà nel corso della narrazione ma come gli abitanti del Canton Ticino abbiano mai potuto vivere prima dell’arrivo dell’eolao un’esistenza così grigia e monotona, divisi gli uni dagli altri, inquadrati, fossilizzati nella ripetizione ossessiva e quotidiana delle stesse azioni, dei soliti discorsi e frasi fatte che, a ben vedere, erano proprio insignificanti. Di certo molto più insignificanti di quanto possano esserlo i nonsense linguistici che escono ora dalle loro bocche.
Superlativi iperbolici, parole che fino a un attimo prima non esistevano e che subito prendono vita, avverbi e congiunzioni usati come nomi propri, libere associazioni senza né capo né coda, risposte non pertinenti a domande impertinenti: tutti i personaggi prendono a parlare la grammatica della fantasia generando, a loro insaputa, conseguenze apparentemente bizzarre, quando in verità possiedono una precisa coerenza linguistica. Cosa accadrebbe, insomma, se le figure retoriche che usiamo tutti i giorni si realizzassero nella loro letterarietà?
Ed è naturale pensare a Gianni Rodari, alla sua Grammatica della fantasia, alle pagine in cui osserva come spesso le narrazioni nascano da una domanda insolita, da un’ipotesi altamente improbabile che viene poi verificata passo passo sul piano della realtà, fino alle estreme conseguenze.
All’interno di quell’ipotesi tutto diventa logico e umano, si carica di significati aperti a diverse interpretazioni, il simbolo vive di vita autonoma e sono molte le realtà cui si adatta.
In questo modo, continua Rodari:
Non siamo più nel nonsenso, mi pare. Siamo, nel modo più evidente all’uso della fantasia per stabilire un rapporto attivo con il reale. Il mondo si può guardare a altezza d’uomo, ma anche dall’alto di una nuvola (con gli aeroplani è facile). Nella realtà si può entrare dalla porta principale o infilarvisi – è più divertente – da un finestrino.
L’eolao è insomma come un sasso gettato in uno stagno: provoca onde concentriche che si allargano sulla sua superficie, coinvolgendo nel loro moto, a distanze diverse, con diversi effetti, la ninfea e la canna, la barchetta e il pescatore. Oggetti e personaggi che se ne stavano ciascuno nella propria routine e nella propria noia, sonno, isolamento, sono come richiamati in vita, obbligati a reagire, a entrare in rapporto tra loro, ridefinendo sé stessi e il linguaggio che li unisce.
Il Tullio e l’eolao più stranissimo di tutto il Canton Ticino ci ricorda quale formidabile e liberatoria sarabanda possa essere la letteratura quando si affranca dal dominio del realismo.