Culturificio
pubblicato 6 anni fa in Girard gruppo studi \ Letteratura

In margine a “La condanna”

il racconto e l'autoesegesi kafkiana

In margine a “La condanna”

«Ora sai dunque ciò che esiste al di fuori di te, finora non conoscevi che te stesso. Eri davvero un bambino innocente, ma ancor più un essere diabolico! E perciò sappi: ti condanno a morire affogato!»

Questa la sostanza della condanna che dà il titolo a uno dei racconti più densi e profondi di Kafka – della cui densità e profondità lo stesso scrittore ebbe a stupirsi, dedicandogli alcune delle pagine più entusiastiche che si siano scritte mai sulla propria opera. Conviene fidarsi della parola d’autore: La condanna è effettivamente uno dei racconti più abissali che si siano scritti, non solo all’interno della produzione kafkiana.

Ci permettiamo di rievocare le circostanze che ne hanno accompagnato la stesura. Nella notte tra il 22 e il 23 settembre, dalle dieci di sera alle sei del mattino, Kafka scrive ininterrottamente, con le gambe irrigidite, in un fiato. «Sforzo spaventevole e gioia di procedere navigando in un mare»; e «soltanto così si può scrivere, soltanto in una simile continuità, con una così completa apertura del corpo e dell’anima» (1). Più volte, dice, porta il suo «peso» sulle spalle, in quella notte. A questo «peso», cui si accenna di sfuggita, ma con tanta partecipazione, dobbiamo volgere la nostra attenzione rispetto al racconto in questione.

La condanna parla di un giovane commerciante di successo, Georg Bendemann, che tiene nascosto a un amico emigrato in terra straniera i propri successi per non cagionargli invidia – tra questi, il più rilevante oltre agli affari della sua azienda è il recente fidanzamento con una giovane di buona famiglia. Antagonista del racconto è il vecchio padre del protagonista, commerciante come il figlio – e come Hermann Kafka. «Georg», fa notare Kafka, «ha altrettante lettere quante Franz. In Bendemann questo “mann” è soltanto un rinforzo di “Bende” […]. Ma Bende ha esattamente tante lettere quante Kafka e la vocale “e” si ripete negli stessi punti della vocale “a” in Kafka». Quanto scrupolo cabalistico! Se il travestimento autobiografico in Kafka è essenziale, ne La condanna la barriera tra vita e letteratura è sottile fino alla trasparenza (2).

La nota del 12 febbraio 1913, a questo riguardo, è un capolavoro di sostituzioni e ironie (3). Vi si chiariscono i referenti reali del racconto: l’amico in terra straniera è ispirato a un tale Steuer, che allora si era appena fidanzato; un ospite di Kafka loda la vividezza della figura del vecchio padre indicando la sedia dove Kafka era seduto mentre lo leggeva – capolavoro di arguzia kafkiana: riportare questo dettaglio per malaugurarsi o esorcizzare la crisi mimetica tra rivali. La sorella fa poi notare che la casa in cui è ambientato il racconto è la loro, e Kafka soggiunge che allora «il padre dovrebbe abitare nel gabinetto» – la regione dell’immondizia nella quale Kafka dirà di sentirsi relegato dal padre nella Lettera che gli dedicherà anni dopo. È la selezione delle informazioni a dar sostanza a un non detto di stellare pienezza.

Si tenga presente che la stesura di questo racconto coincide con l’invio della prima lettera a Felice Bauer, datata 20 settembre 1912: l’inizio di una lunga storia d’amore, soprattutto epistolare, ma anche l’ingresso di una donna reale, e amata, nella vita di Kafka.

Queste le premesse cronologiche indispensabili per inquadrare correttamente l’opera.

Si potrebbe dire che La Condanna è un racconto seminale, nel senso che il resto della produzione kafkiana altro non è in fondo che l’estensione illimitata e abissale del medesimo nucleo di senso su cui è strutturato il testo del 1912. Il nodo che ne determina la struttura è la sintomatologia di uno scandalo nella cui logica Kafka coglie l’essenza contraddittoria della propria vita. Il desiderio che Kafka vorrebbe puro è in realtà frutto e fonte di mediazione: in atto vi è la trappola della doppia mediazione che prolifera e si diffonde nei vari personaggi, simboli e fughe con cui Kafka cercherà di rispondere all’appello della vita. Con Deleuze e Guattari abbiamo ormai compreso come la scrittura sia per Kafka un tentativo di ritagliarsi una “via di fuga”(4), un modo per disarticolare il proprio desiderio (mimetico) nel tentativo romantico e sclerotico di rendere la propria soggettività totalmente indipendente e autonoma – ciò che in Per una letteratura minore veniva definito il divenir-animale, e che noi tentiamo di ricomprendere come un tentativo di fuoriuscire dallo scandalo destato da un mediatore (5).

La trasfigurazione del reale, la glaciale concretezza dei dettagli ed insieme l’atmosfera ambigua e volatile tipica del sogno si fanno in Kafka così angoscianti perché le mediazioni del desiderio – quelle che vengono suggerite dallo stesso Kafka piuttosto che quelle subite, posto che la mediazione non permette di differire e sostanziare separatamente suggerimento e soggezione – concretizzano l’altro anche nella forma della responsabilità, ossia l’altro diventa colui cui sono obbligato a rispondere e a rendere conto, in special modo proprio quell’altro il cui sguardo, parola, gesto pesa in quanto accusa e, forse, condanna.

Sostituzioni, travestimenti e scivolamenti ironici tra vita vissuta e narrazione strutturano la complessissima architettura di questo racconto, che dovremo affrontare per gradi. Vogliamo partire da un’analisi letterale e in qualche modo lineare, considerando solamente i rapporti tra i personaggi, per poi addentrarci nell’abisso allusivo del racconto. Per adempiere al meglio questo compito iniziale, propedeutico e superficiale, ci limiteremo ad analizzare nemmeno il racconto stesso, ma una nota dei Diari (11/2/1913) nella quale l’autore propone un’embrionale analisi del proprio racconto, prendendo “nota di tutti i rapporti che gli si sono chiariti”.

L’autoesegesi non solo conferma il fondamento mimetico che fonda l’esperienza esistenziale e artistica di Kafka, ma è anche in grado di svelare al lettore, come in controluce, il dispositivo architettonico su cui si struttura la sua intenzione narrativa, una sorta di guida ai mascheramenti e ai giochi di ruolo con cui Kafka prova a simbolizzare e trasfigurare il reale.

Riproduciamo tutta la nota, che analizzeremo nel dettaglio, per la comodità del lettore.

Correggendo le bozze del racconto La condanna prendo nota di tutti i rapporti che mi si sono chiariti nel racconto in quanto li ho in mente. Ciò è necessario perché il racconto è uscito da me come un vero e proprio parto coperto di muco e lordura, e soltanto io possiedo la mano che possa penetrare fino al corpo e ne abbia voglia:

L’amico è il collegamento fra padre e figlio, è la loro massima comunione. Seduto in solitudine accanto alla finestra, Georg fruga con voluttà in questa comunione, crede di avere il padre dentro di sé e considera pacifica ogni cosa tranne una fugace malinconica pensosità. Ora lo sviluppo del racconto mostra come dalla comunione, dall’amico sorga il padre e si metta di fronte a Georg come antitesi, rafforzata da altre, minori cose comuni, cioè dall’amore, dall’attaccamento alla madre, dal fedele ricordo di lei e dalla clientela che in origine il padre ha acquistato per l’azienda. Georg non possiede niente; la sposa che nel racconto vive soltanto per il rapporto con l’amico, vale a dire con ciò che è comune, e che non essendoci ancora state le nozze non può entrare nel circolo sanguigno che chiude padre e figlio, è facilmente scacciata dal padre. Tutte le cose in comune sono ammucchiate intorno al padre. Georg le sente come cose estranee, resesi indipendenti da lui, non abbastanza protette, esposte a rivoluzioni russe, e soltanto perché lui stesso non possiede altro che la vista del padre, la condanna che gli preclude interamente il padre agisce così profondamente su di lui[…] (6)

Attori principali del racconto sono quattro: il protagonista, il padre, l’amico emigrato in Russia e la fidanzata. L’amico è presentato inizialmente come “il collegamento tra padre e figlio”, ovvero “la loro massima comunione”. Questa comunione si struttura attorno all’amico e ad un plesso di altre “cose comuni”, quali “l’amore, l’attaccamento della madre, il fedele ricordo di lei e la clientela che in origine il padre ha acquistato per l’azienda”. Tali elementi comuni sono gli oggetti del desiderio condivisi sui quali pesa la mediazione paterna che nella stessa nota è indicata con l’espressione “la vista del padre”.

“Tutte le cose comuni sono ammucchiate intorno al padre” sta a significare che nella rivalità mimetica il vincitore è sempre lui, il padre totemico. Gli oggetti contesi possono essere condivisi dal figlio solo per gentile concessione del mediatore-vincitore assoluto. Per questo “Georg le sente come cose estranee, resesi indipendenti da lui, non abbastanza protette, esposte a rivoluzioni russe”. La mediazione, oltre che impossibile, perché strutturata come una rivalità dalla quale il padre esce sempre vincitore, è presentata come ineluttabile, perché Georg (Kafka) “non possiede altro che la vista del padre”.

La “vista” del padre rappresenta l’indicazione dei desiderata comuni, quella territorializzazione eterodiretta che rende la realtà degli oggetti compresi precaria e vacillante, sempre minacciata dalla famelica voracità del padre – la cui immagine più vivida, e che in Kafka desta sempre maggiore nausea, è quella di lui alle cene famigliari, che mangia con appetito tutto quello che c’è sul tavolo. (A margine: non sarebbe forse possibile interpretare lo scarso appetito di Kafka e il suo vegetarianesimo come esercizi di sganciamento della mediazione paterna, che a tavola doveva sprigionare il suo potenziale nella forma più volgare e palpabile?)

Nel migliore dei mondi possibili l’istanza-esistenza paterna dovrebbe configurarsi come mediatore assolutamente esterno, ma l’eccessiva vicinanza e il perenne rischio d’indifferenziazione che caratterizza il rapporto tra Georg (Kafka) e il padre – per l’insistenza di entrambi sulle “cose comuni” – dischiude il vortice della mediazione interna. La stessa figura dell’amico, come vedremo analizzando il racconto, apparirà come indefinita e costantemente esposta al rischio di essere riappropriata dai discorsi contrapposti del figlio e del padre.

Dal turbine confusivo mediazione interna, che nella nota è detta anche con il termine “comunione”, “sorge il padre come antitesi”. Tale emersione del padre dal fondo della comunione degli oggetti contesi sta a significare che in Georg (ma qui più che mai in Kafka) agisce sempre, e inevitabilmente, una pre-comprensione della figura paterna a partire dalla rivalità mimetica. L’evento della paternità (7) non può sprigionare il proprio potenziale di alterità magistrale (di mediazione esterna) in quanto la figura del padre è già funzionalizzata simbolicamente, ipotecata dalla meccanica mimetico-rivalitaria. Ci si potrebbe chiedere se una tale pre-comprensione non sia frutto di un calcolo; in tal caso il sorgere del padre come evento sarebbe solo un altro mascheramento interno al racconto.

L’evento della paternità precompresa a partire dal fondamento rivalitario-mimetico della loro relazione – e l’ineluttabile destino di condizionamento della propria esistenza sotto l’effetto della “vista del padre” intesa come mediazione assoluta e impossibile – è “la condanna che gli preclude interamente il padre”, ovvero il “peso” che Kafka (sub specie Georg) porta sulle spalle quando scrive la notte del 22 settembre e per tutto il resto della sua vita.

La preclusione del padre sostanziata dalla condanna così formulata è un tema importantissimo; costituisce probabilmente il centro focale di tutta la narrativa kafkiana, e ad essa dovremo dedicare altre riflessioni. Ci limitiamo per ora a far notare come ciò che è precluso non sia il padre nella sua interezza, ma appunto l’evento della paternità autentica, che costituisce l’inesprimibile lutto dell’esistenza di Kafka. Ciò che preclude la paternità autentica è quella contraffazione mostruosa, affatturata dal mimetismo rivalitario, che sostanzia l’immagine del padre-tiranno Hermann Kafka che tutti noi conosciamo. Ma sull’origine di questa contraffazione dovremo dire ancora.

Analizziamo ora i rapporti e le posizioni dei due personaggi minori del racconto, la fidanzata e l’amico. Di quest’ultimo si dice che è “la massima comunione tra padre e figlio”, ovvero l’elemento più eminente della loro rivalità – data per buona l’equazione comunione = rivalità mimetica. Vedremo infatti che nel racconto l’intimità con l’amico in Russia costituisce la posta della rivalità più epidermica tra padre e figlio – la contesa un po’ infantile su chi gli sia più amico, o con chi dei due egli sia più sincero. Riteniamo che questa figura fugace e mai presente in scena, ma sempre evocata, sia incaricata di un ruolo simbolico di cui chiariremo prossimamente la sostanza. Per quanto riguarda il suo rapporto con i due personaggi maggiori, quanto detto è sufficiente.

La posizione della fidanzata nello schema dei rapporti è invece più complessa: all’inizio del racconto, sempre stando alla nota dell’11 febbraio, ella “vive soltanto per il rapporto con l’amico”; tanto è vero che diviene motivo di paventato scandalo del narratore nei confronti dell’amico in Russia. Ella però non ha, per il momento, nulla a che fare col padre: “non essendoci state ancora le nozze, non può entrare nel circolo sanguigno che chiude padre e figlio”. Non avendo ancora assunto il ruolo di sposa di Georg – ovvero la funzione simbolica di sostituta della madre, una delle famose “cose comuni”, cioè poste di rivalità, elencate nella nota – ella non è ancora incistata nel “circolo sanguigno” della mediazione interna, e per questo può essere “facilmente scacciata dal padre”, cioè rifiutata nella sua qualità di ulteriore posta in gioco della rivalità eterna tra padre e figlio – rivalità che nel racconto, come abbiamo già detto, si scatenerà soprattutto intorno alla figura dell’amico. La fidanzata, come in tutte le altre opere in cui compare e come nella vita reale di Kafka, è, di tutte le poste comuni, quella che per il padre sarebbe assolutamente inappropriabile, l’asso nella manica del figlio che pone in scacco il ruolo di eterno rivale-vincitore totalitario e divoratore esercitato dal padre – perché è la donna del figlio, tabù che il (buon) padre non potrebbe, nemmeno volendo, ammucchiare presso di sé, cioè appropriarsi, nel cerchio sanguigno della mediazione interna.

Nell’economia simbolica del mondo-Kafka l’istanza della “fidanzata”, chiunque ella sia, è una figura magica, messaggera di un aldilà-della-mediazione di cui nemmeno più si sospettava l’esistenza, salvatrice che, in qualità di futura sposa, viene potenzialmente a redimere l’eterno adolescente dall’incantesimo gettato sul mondo comune dalla “vista del padre” – portando con sé un altro mondo, un nuovo assetto dei vettori del desiderio e della gerarchia valoriale. Abbiamo detto che il racconto è scritto due giorni dopo l’invio della prima lettera a Felice – chissà in seguito a quante e quali fantasticherie, se cominciamo appena a intuire l’indole del nostro – ed è dedicato eloquentemente “a F.”. Quale sogno romantico di liberazione si celi dietro a questa dedica e al suo motore ideale, si vedrà. Di sfuggita: una fidanzata non può restar tale in eterno, e ha presto o tardi da diventare moglie. Su questo passaggio cruciale, la Lettera al padre sarà doviziosa di dettagli.

I rapporti così definiti dalla nota autoesegetica dell’11 febbraio 1913 presentano l’immagine di un Kafka eroe romantico la cui missione è quella di sfatare il maleficio (“il cerchio sanguigno”) che il padre-stregone ha riversato sul mondo condiviso – mondo la cui immagine è nitidamente presentata in una pagina della Lettera al padre come una carta della Terra sopra la quale giace disteso il padre (8). La spiegazione del Kafka critico di sé medesimo difetta tuttavia della profondità – o dell’ambiguità – di cui abbonda invece il racconto vero e proprio. Come sempre, il Kafka narratore dice molto di più di quello che vorrebbe, la sua fantasia sorpassa la ragionevolezza critica (e quindi il calcolo) con cui, nei Diari e nei testi più monologici, tenta di addomesticare la sua stessa narrativa.

Partire dalla nota autoesegetica significa per noi mostrare il lato luminoso del discorso ossessivo di Kafka (la prospettiva romantica di una mediazione interna inferta d’autorità da un padre tiranno), per tentare di penetrare quindi nel segreto inconfessabile custodito nella sua scrittura narrativa, perennemente differito e dissimulato: la complicità nello scandalo, il vittimismo morbosamente ricercato, il desiderio di attribuire esclusivamente al padre la totale responsabilità della propria condizione di eterno esule dal Canaan della vita e degli affetti umani.


(1) F. Kafka, Confessioni e diari, Mondadori, Milano 1972 , p. 373

(2) Ibid., p. 377

(3) Ibid.

(4) G. Deleuze, F. Guattari, Kafk.a. Per una letteratura minore, Quodlibet, Macerata 1996.

(5) Cfr. l’articolo di Mattia Carbone pubblicato sul blog di Le parole e le cose

(6) F. Kafka, Confessioni e diari, op. cit., pp. 376-377. In queste pagine si trovano tutte le citazioni virgolettate nel testo.

(7) Utilizziamo la parola evento nel senso che Heidegger attribuisce alla parola Ereignis

(8) Ibid., p. 684.

Articolo a cura di Mattia Carbone e Matteo Bisoni

Questo articolo è stato originariamente pubblicato su Delle cose nascoste , un blog che dalle idee di René Girard cerca di dare una nuova chiave di lettura sia della società che dei suoi prodotti culturali. Abbiamo voluto pubblicare questa rubrica perché crediamo che il pensiero di questo studioso, un intellettuale sorprendente che ha dato un contributo originale nei campi di studio più disparati (si spazia dalla letteratura all’antropologia, dalla sociologia alla storia delle religioni) sia di fondamentale importanza per coltivare una visione critica sul mondo, soprattutto sulla nostra contemporaneità.

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