Introduzione al pensiero filosofico cinese
Cina e Filosofia
Cosa sono la Cina e il pensiero filosofico cinese per noi? Essi costituiscono l’alterità, sono semplicemente l’altro capo dell’esistenza umana. Proviamo allora un primo approccio con una filosofia sviluppatasi in maniera totalmente diversa da quella occidentale. Così diversa da non poterla neanche chiamare “filosofia”? Per rispondere, andiamo avanti per sommi capi, come si addice a un’introduzione, e cerchiamo di farci un’idea chiamando in causa, qua e là, alcuni concetti filosofici a noi più vicini con l’intento di aiutarci.
Dal XX secolo la Cina è in costante equilibrio tra l’eredità del suo pensiero tradizionale e la modernità occidentale, sia essa quella della Rivoluzione Culturale degli anni ‘60 o quella della globalizzazione economica più recente. Non si deve però cadere in un’assimilazione abusiva, la cultura cinese è antichissima e come tale è ancora palpabile: “La Cina è quest’Altro fondamentale senza il cui incontro l’Occidente non può diventare veramente consapevole dei contorni e dei limiti del proprio Io culturale” (Simon Leys, in L’humeur, l’honneur, l’horreur. Essais sur la culture et la politique chinoises).
Lo schema alla base del pensiero cinese si sviluppa in maniera diversa da quello occidentale. Esso non ha radici in quel Logos di greca memoria e quindi per noi costituisce davvero un’alterità. Possiamo dire che il nostro pensiero, inteso in modo generale, è legato alla figura della retta, sia esso in senso dialettico, logico, storico, politico, religioso, scientifico ecc, in quanto si snoda lungo la catena dei rapporti di causa-effetto. Il pensiero cinese, al contrario, è rappresentabile da una spirale di cerchi concentrici che mirano ad approfondire un significato, stringendosi attorno a esso. La grande chiave del pensiero cinese è la ripetizione, non un “progresso” lineare. Nel corso dei secoli, in Cina, si ripetono costantemente gli stessi problemi filosofici del passato. Quello che dal nostro punto di vista può sembrare un’immobilità, un ritornare senza progredire, può essere visto piuttosto come l’azione di tessitura di una grande tela, passandovi sopra la spola più e più volte: in mezzo alle ripetizioni, alla fine, emergerà un sorprendente disegno: questo disegno è il significato intorno al quale ci si stava interrogando.
Il pensiero cinese non prosegue su una retta, lungo la quale diversi metodi filosofici vengono in contrato tra loro e si rendono autonomi dai precedenti, né punta a una verità che possa dirsi assoluta e eterna rispetto ad altri concetti. Questi modi di operare, invece, sono ben presenti nel corso della storia della filosofia in Occidente. Persino l’avvento del buddhismo, in Cina, è stato assorbito nel tutto. Il pensiero cinese tende al sincretismo, nel senso che non separa i concetti, né scarta qualcosa a discapito di un’altra. Come insegna la celebre coppia di Yin e Yang, vi è piuttosto un dosaggio tra le diverse verità, ognuna ugualmente valida in base al contesto. La realtà è un continuum. Tutte le parti della realtà sono sempre correlate tra loro, coerenti, complementari.
La costante ripetizione dei temi filosofici, l’avanzare per cerchi concentrici, il preferire la mescolanza tra i concetti piuttosto che l’esclusione, sono segni di quanto il pensiero cinese sia legato inscindibilmente alla tradizione, familiare e territoriale. Gli intellettuali cinesi agivano congiunti alle varie dinastie che si sono succedute per circa tremila anni e non si possono comprendere i loro scritti senza conoscere la tradizione endemica in cui sono vissuti. Questo connubio tra filosofia e tradizione è suggellato dalla parola “Jia”, che significa sia “corrente di pensiero” sia “famiglia” o “clan”. Lo stesso Confucio, prima grande personalità intellettuale, asserisce: “Io trasmetto, senza creare nulla di nuovo” (Confucio, Dialoghi).
In virtù di questo ripetersi, il pensiero cinese si cala dentro la realtà mondana anziché sovrapporvisi. Tra il soggetto e l’oggetto non sussiste il distacco conoscitivo tipico di molte filosofie occidentali. Il mondo non è concepibile al di fuori dell’uomo e l’uomo non è concepibile al di fuori del mondo: questa è la vera armonia, non ci sono fratture tra soggetto e oggetto. Ha poco senso, per esempio, parlare di “epistemologia” in riferimento al pensiero cinese. Persino il concetto di “categoria” sembra venire meno in quest’ottica che non accetta catalogazioni. Il soggetto è immerso nell’oggetto e non esiste una conoscenza o una razionalità al di fuori dall’oggetto stesso.
Questo porsi in una relazione sullo stesso livello della natura, allora, sposta la riflessione filosofica sull’azione umana. Il pensiero cinese pone in discussione un altro percorso tipico di alcune filosofie occidentali, ossia quello dell’ontologia. Non si deve chiedere “cosa?”, ma “come?”. Ma è un “come” non svincolabile dal corpo umano agente. L’azione è richiamata nella parola “Dao”, che significa “cammino” e indica il percorso filosofico per eccellenza. La conoscenza teorica, che rimane nel solo ordine mentale, non è vera conoscenza. Solo agendo si può arrivare a conoscere, solo incamminandosi lungo la via si comincia a ragionare. Se è lecito parlare di “essere”, questo è in continuo divenire a tutti i suoi livelli.
Il divenire incessante ci mostra quanto il pensiero cinese sia vivo. Il vitalismo onnipresente è espresso dal “Qi”, traducibile con il termine “soffio”. Il soffio permea ogni cosa, diventando sia etica che estetica allo stesso tempo. Esso rappresenta un’unità fondamentale che però non è statica o ultraterrena ma è vitalità che si trova in continuo mutamento. Questa forza vitale costituisce la meta di tutto il pensiero cinese nel corso della sua storia millenaria. “Il Qi, lungi dal rappresentare una nozione astratta, è percepito nel più profondo della realtà e della carne” (Anne Cheng, Storia del pensiero cinese).
Alla luce di tutte queste differenze, se si assume un punto di vista occidentale, il pensiero cinese può essere visto come uno stadio pre-filosofico. Ciò avviene se si considera la filosofia come un retaggio che ha radici unicamente nel Logos greco e che si affina soltanto nel compiersi della storia occidentale. Certamente non è del tutto corretto accostare il termine “filosofia” alla cultura cinese. In Cina, fino al XX secolo, non esiste neppure questa parola, salvo poi essere coniato un neologismo ad hoc che è “zhexue”. Sembrano allora presentarsi due scelte. Possiamo riconoscere il pensiero cinese come diverso da quello occidentale ma, proprio in questo riconoscimento di alterità, trovare il garante per una pari dignità intellettuale. Oppure, possiamo useremo la diversità per porci in una posizione di superiorità. In tal caso si andranno a perdere in via definitiva le differenze fondamentali che contraddistinguono un antico modo di vivere e di pensare, come già in parte è avvenuto con la Rivoluzione Culturale e l’odierna globalizzazione. Ma attenzione: così facendo non rinunceremo soltanto alla filosofia cinese. Così facendo rinunceremo presto anche alla nostra stessa filosofia, in favore di un pensiero unico e piatto.