“La città senza cielo” di Jean Malaquais
alla scoperta di un illustre «classico dimenticato»
Odio chi, per parlare di uno scrittore, lo paragona a un altro: è un escamotage che, se da un lato permette di dire molto dicendo poco, dall’altro «spersonalizza» l’autore privandolo, nel paragone con un altro, della propria specificità e individualità.
Proprio per questo ho deciso di contraddirmi immediatamente, nella consapevolezza che spesso però il confronto con un grande può stimolare la curiosità del possibile lettore, affermando che chi apprezza Kafka probabilmente apprezzerà La città senza cielo, con le dovute distinzioni: se da un lato nel romanzo possiamo ammirare un protagonista alle prese con una enorme macchina burocratica (la “Città”, appunto) che, impalpabile e inamovibile, schiaccia inesorabilmente il protagonista Pierre Javelin il quale, esattamente come Josef K. e K., si trova alle prese con dei burocrati più simili ad automi che gli oppongono una logica tanto assurda quanto ferrea, dall’altro nei racconti di Kafka questo meccanismo narrativo ha funzione fondamentalmente umoristica (sappiamo che mentre leggeva le sue Metamorfosi agli amici le letture erano accompagnate da fragorose risate, in barba ad almeno i tre quarti delle letture prodotte dalla critica occidentale). In Malaquais, invece, l’impotenza del protagonista di fronte a questa distopica (ma neanche troppo) realtà assume tutti i connotati della tragedia.
Ma forse è il caso di fare un passo indietro e presentare meglio sia il libro che l’autore: Jean Malaquais (Varsavia, 1908 – Ginevra, 1998) è lo pseudonimo di Malacki Wladimir Jan Pavel Israël Pinkus, di famiglia polacca di origine ebraica, a 17 anni inizia a girovagare per il mondo e a svolgere le professioni più disparate, fino a giungere in Francia alla fine degli anni ’20; qui inizierà il suo contatto con le dottrine marxiste e, dal 1935, la sua collaborazione con André Gide, di cui nella prefazione di Norman Mailer, amico dello scrittore, leggibile in traduzione nell’edizione recensita (La città senza cielo, Guidonia, Cliquot 2019) si ricordano alcuni aneddoti piuttosto interessanti ed esemplificativi del personaggio (pp. 6-11).
Venendo all’edizione Cliquot, il volume è stato accolto nella collana Biblioteca, una delle quattro proposte dalla casa editrice, a cui devo la calzante definizione di «classici dimenticati» del sottotitolo.
Il volume si presenta nella bella traduzione di Elisabetta Garieri, a cui però va fatto un appunto non da poco per la scelta del titolo italiano: il romanzo è uscito per la prima volta nel 1953 col titolo Le Gaffeur (Le Gaffeur, Parigi, Buchet-Chastel 1953) e con lo stesso titolo è stato ripubblicato nel 2001 (Parigi, Phébus) e nel 2016 (Parigi, L’Échappée).
In francese il “gaffeur” è, banalmente, colui che compie le “gaffes” che sono entrate anche nel nostro uso comune: anche se non esiste un corrispettivo perfetto in italiano con gaffeur si indica in sostanza il pasticcione, l’imbranato; volendo forzare un po’ il significato letterale per usare un termine più caro alla critica letteraria italiana, l’inetto. Ora, spostare così tanto il focus dal protagonista alla Città – che pure riveste un’importanza fondamentale nell’ordito narrativo e assume una molteplicità di significati nel richiamo alla Civitas Dei agostiniana (Malaquais menziona infatti sia l’opera che l’autore rispettivamente alle pp. 178 e 256) – è sì una mossa intelligente a livello editoriale (La città senza cielo è sicuramente un titolo che letto sul catalogo attira molto di più di Il pasticcione), ma senza alcuna nota del traduttore o giustificazione nella scelta del titolo si rischia di fuorviare il lettore nell’approccio critico al testo.
Entrando nel merito del romanzo, al contrario di Mailer (p. 1) ho trovato il testo godibile fin dalla prima lettura, e non l’ho trovato affatto deludente, tutt’altro. Ma che romanzo è La città senza cielo?
Non mi piacciono le definizioni che riconducono un libro a un genere, perché ne banalizzano enormemente il contenuto apponendovi sopra un’etichetta, autorizzando non-lettori (e, purtroppo, spesso anche critici) a parlarne en passant pur non avendolo mai neanche sfogliato (non mi piacciono molte cose, è vero). Le definizioni, d’altro canto, possono incuriosire gli appassionati del “genere” e spingerli a leggere il romanzo; dunque, se definizione deve essere, dovremo etichettare il libro a metà tra giallo e distopia (e quando dico “giallo” in realtà penso a qualcosa di più vicino a Shutter Island che a Sherlock Holmes), un plot giallo che si sviluppa in un mondo distopico. D’altronde le possibili suggestioni non mancavano: gli anni ’40 e ’50 del ’900 hanno rappresentato uno dei punti più alti per la fortuna del romanzo giallo ‘modernista’, e il genere distopico aveva già visto e rivisto commentato e capolavori come Metropolis di Fritz Lang (1927), che forse rappresenta uno degli esempi cinematografici più vicini a La città senza cielo (ho citato Shutter Island, e potrei citare anche Brazil di Terry Gilliam, ma è alquanto improbabile che Malaquais li avesse visti prima di scrivere il romanzo) o, sul versante letterario, 1984 di George Orwell (1949, lo stesso anno in cui Malaquais ha iniziato a lavorare a La città senza cielo). Malaquais fa muovere il suo personaggio in una società distopica in cui l’eversione dalla norma canonizzata è considerata un crimine da punire (per questo basti l’esperienza di qualsiasi regime totalitario) e l’uomo che cerca di affermare sé al di sopra del prototipo di cittadino imposto dalla Città rischia di perdere sé stesso (e tutto il resto) nel tentativo, un mondo in cui, e questo va considerato alla luce della biografia di Malaquais, la poesia rappresenta uno dei crimini peggiori.
«In una parola» propose «lei “rifiuta” la Città?». «Andiamo, sta cercando di farmi dire un’assurdità. Con il particolare accento che ci mette lei, rifiutare la Città equivarrebbe a negarla. Speravo di sfuggire alla Città, ma non ho mai pensato di negarla, e meno che mai oggi. Come potrei?»