La granata che andava controcorrente: J.K. Huysmans
L’apparente cecità della critica letteraria italiana, cecità che risulta essere, in realtà, un puerile tentativo di nascondere gli occhi dietro le mani volto alla non-osservazione dell’evidente, la cui causa è da ricercare in quell’invidia logorante tutta nazionalistica che massicciamente innalza, rimarca e rende quasi invalicabile il ragnatelesco e assopito confine alpino da parte del logos d’oltralpe, perpetuando nell’abbagliante convinzione che l’essere la culla delle humanae litterae coincida con il possesso di un qualche scettro del “predominio culturale universale” che determini, in definitiva, e assicuri alla letteratura italiana di occupare il “Trono della Qualità e dell’Invettiva” nel succedersi atemporale dei secoli, e permetta quindi, quasi autorizza, l’assenza di confronto; questa malsana e apparente cecità, dunque, fa sì che quel poco che di “barbaro” riesca ad essere infine tradotto e consultato dagli occhi avidi del sempre più raro lettore italiano, non sia altro che il frutto di una scelta accurata e simbolica, un finto tentativo d’apertura che subito finisce per cristallizzarsi; e di questa cristallizzazione è stato vittima quel movimento artistico denominato estetismo – movimento appunto, come sottolinea il nome, coralità di sguardi che, seppur da angolazioni diverse, scrutano nella stessa direzione – che in Italia è stato ridotto alla figura di due soli autori le cui effigi, incorniciate e attaccate al muro, riportano a caratteri cubitali i nomi di Gabriele D’Annunzio e di Oscar Wilde – per il quale, tra l’altro, bisognerebbe parlare di “fase estetica”, dal momento che nel De Profundis l’aspetto materialistico del piacere viene rinnegato in nome dell’Amore, autentico padrone della Bellezza.
Ah sì? Questo libro è scoppiato come una granata tra i giovani artisti? Io pensavo di scrivere per dieci persone, di aprire una sorta di libro ermetico, sprangato agli occhi. Con mia grande sorpresa, è risultato che alcune migliaia di persone disseminate ai quattro angoli del pianeta fossero in uno stato d’animo analogo al mio, disgustati dalla trivialità ignominiosa del secolo attuale. (Commento di Joris-Karl Huysmans al successo editoriale di À Rebours).
Accantonato, sepolto nel dimenticatoio, totalmente sdegnato, À Rebours – nella traduzione italiana A ritroso o Controcorrente – di Joris–Karl Huysmans venne accolto, all’epoca della sua pubblicazione avvenuta nel 1884, in Francia, in modo estremamente positivo su tutti i fronti – critica, grande pubblico, letterati e artisti all’autore contemporanei come Mallarmé – tanto da porsi, nel panorama letterario occidentale, come momento imprescindibile di passaggio dal movimento naturalista a quello decadente, e tuttavia già superandolo, nonché come chiave di volta, manifesto letterario che, accanto a Les Fleurs du mal, divenne il complementare prosastico di un’intera generazione vibrante all’unisono, affascinata e sedotta da quel “ciarlare maledetto” che nulla aveva di pedantesco e che tentava d’erigere l’individualismo ad egida contro le insidie dilanianti del feto capitalista, in una ricerca identitaria estenuante volta all’eccesso e ad una ribellione personale totalmente interiorizzata.
Eravamo allora in pieno naturalismo; ma questa scuola, che doveva rendere l’indimenticabile servizio di situare personaggi reali in ambienti precisi, era condannata a ripetere sempre le stesse cose, segnando il passo. Almeno in teoria, essa ammetteva raramente eccezioni; si limitava dunque a dipingere la vita comune, si sforzava, con il pretesto di riprodurre il vero, di creare esseri che fossero il più possibile simili alla buona media della gente. Un ideale che
a suo modo si era realizzato in un capolavoro che è stato, molto più de L’Ammazzatoio, il prototipo del naturalismo: L’Educazione sentimentale di Gustave Flaubert. Questo romanzo era, per tutti noi delle “Serate di Medan”, una vera bibbia; ma consentiva ben poche variazioni. Era perfetto, irripetibile per lo stesso Flaubert; dunque noi tutti, a quel tempo, eravamo ridotti a bordeggiargli attorno, a vagabondare per vie più o meno esplorate.
(Prefazione di Joris-Karl Huysmans, scritta vent’anni dopo la data di pubblicazione dell’opera).
Il naturalismo, fagotto in spalla, abbandonava la progenie che l’aveva accolto con clamore; un vagabondo disperato, esiliato, rinnegato – era il 1865, quando Guy de Maupassant pubblicava Bel Ami, sancendo definitivamente la sua uscita dal movimento – il cui corpo spossato e rugoso venne trovato, privo di sensi e con accanto la fiaccola della verità – o meglio, della propria percezione/porzione di Verità – semi – spenta, da un giovane Giovanni Verga che ne evitò l’assideramento, soffiando con gioia sui tizzoni ardenti d’una visione artistica altrimenti prossima all’oblio. Nonostante Flaubert fosse irremovibile, la Francia assisteva stupefatta al tracollo di una parabola, la parentesi del naturalismo subiva, grazie a Huysmans, uno scossone che, per la sua componente innovativa, negava qualsiasi possibilità di ripresa. Come poteva, infatti, il naturalismo, che si proponeva di descrivere la realtà secondo un dettame morale di veridicità il più possibile oggettivo, reggere di fronte ad un romanzo la cui forza dipendeva dall’assenza di una trama in nome del concetto di artificiosità estetica?
Di fatto è con A’ Rebours che l’estetismo approda nel campo del romanzesco; un estetismo che riunisce in sé i caratteri materialistici del dandismo di George Brummell – primo, autentico dandy della storia, londinese, conosciuto in Francia attraverso un saggio pieno d’ammirazione scritto da Barbery d’Aurevilly, nel 1845 – e la componente bilaterale, ovvero stoica e spirituale da un lato, ribelle dall’altro, dell’animo estetico teorizzata da Baudelaire nel Peintre de la vie moderne, e la cui potenza è tutta nell’uso spasmodico del linguaggio, quasi a voler ingabbiare l’Encyclopédie in un testo narrativo, arricchendola però d’esotismi inusitati e di arcaismi mirati al puro godimento intellettuale – il che dovrebbe far riflettere sulla componente mimetica, anziché innovativa, della “parola ornata” dannunziana.
Guy de Maupassant definì il romanzo come “la storia di una nevrosi”; la trama, difatti, è racchiusa tutta in un episodio, che funge da perno fittizio all’avvio della narrazione: Des Esseintes, aristocratico francese, deluso dalla mondanità e dalla frivolezza dell’ambiente parigino, decide di ritirarsi in una villa in campagna a Fontenay – evidente il richiamo con il concetto latino di otium – dove la sua unica preoccupazione sarà quella di “arredare casa” – la scrupolosità di Huysmans fa sì che ad ogni capitolo corrisponda un aspetto preciso dell’arredamento e la narrazione prosegue lenta, scandita da un ritmo descrittivo fine a se stesso, obbediente al solo gusto per la parola.
Uno sperimentalismo però, non isolato; la biblioteca di Des Esseintes è una presa di posizione intellettuale precisa, un capitolo fondamentale nella storia della letteratura francese, si direbbe quasi un saggio nel romanzo. Sempre nel 1884, infatti, Paul Verlaine dava alle stampe – a proprie spese, è importante ricordarlo – Les poètes maudits, raccolta poetica che s’imbatté nell’indifferenza generale.
Di fatto, bisognerà attendere la fine del secolo affinché Verlaine venga eletto/riconosciuto “Principe dei Poeti”. Eppure, l’occhio scrutatore di Huysmans notò di non essere solo; sullo sfondo di un panorama melanconico, i maudits arrancavano parallelamente sulla stessa strada , come ombre, un abbaglio appena intravisto che aveva il sapore della condivisione e che si espresse in un elogio critico senza precedenti. Ecco quindi, al centro della sala isolata che Des Esseintes ha scelto per dedicarsi alla lettura, una stanza illuminata da una luce artificiale, le cui finestre sono state sostituite da giganteschi acquari che filtrano la luce del sole, ecco quindi in mezzo a questa stanza silenziosa, una teca di vetro contenente la prima edizione de Les Fleurs du Mal; ecco, sugli scaffali della biblioteca, accanto ai classici latini e greci, i nomi imponenti di Mallarmé, Verlaine, Rimbaud; ecco che, tramite la mediazione di Huysmans, la curiosità dei lettori francesi si faceva pressante e famelica. Eccolo, Huysmans, nella sua potenza di critico-visionario, eccolo farsi profeta nel comprendere di essere alle prese con l’incarnazione dell’Immortalità.
Benché in A’ Rebours non ci sia quel superamento della morale tanto auspicato da Baudelaire come fine ultimo dell’Arte, perché la scelta d’isolamento di Des Esseintes è, prima di tutto, una scelta etica e benché il concetto di “sregolatezza di tutti i sensi” venga ricercato in modo sì artificioso, ma dall’esterno, seppur un esterno progettato appositamente come mezzo, che nulla racchiude in sé della passività percettiva del reale, e non dall’interno – l’estro e l’hashish che si tengono per mano in Rimbaud – Huysmans riesce a dipingere in modo sublime l’unione, dicotomica fino ad allora, in “un solo corpo e in una sola anima” tra l’edonismo di stampo epicureo, visto come l’assenza di dolore – l’eremitaggio ne è qui la maggiore espressione – e la visione estetica della scuola cirenaica, quel piacere sensistico di cui Wilde sarà il maggior esponente ma in senso unilaterale, e quindi regressivo rispetto alla visione edonistica del francese, concependoli entrambi come “tentativo” volto, però, al fallimento e anticipando così, di quasi un secolo, le basi della philosophie de la liberté sartriana – l’azione come strumento identitario -, costruendo anch’egli un’associazione fallimentare per l’uomo tra lo stato di nausée – necessariamente da superare, in Sartre – ed il soddisfacimento della tensione naturale verso una libertà di tipo armonico tra il Sé ed il mondo: la nevrosi di Des Esseintes, infatti, finirà per acuirsi con l’isolamento dal reale e l’uomo, ormai spossato e prossimo alla follia, sotto consiglio del medico dovrà tornare alla realtà sociale per curarsi dal suo male, la stessa realtà da cui era fuggito proprio per lo stesso motivo.
È il motivo per cui il titolo originario del romanzo, Seul, venne modificato nel più raffinato A’Rebours, a ritroso rispetto alla fiducia progressista della borghesia ottocentesca, a ritroso rispetto alle posizioni naturalistiche dell’arte francese, a ritroso rispetto all’apparente dinamismo della noia mascherata da vita per un ritorno al riflessivo, e contemporaneamente, “controcorrente”, azione distruttrice, ri-creativa dell’essere, pur tuttavia con un finale amaro, questa volta per l’autore, di stampo verlainiano, quando ad un articolo di Barbey d’Aurevilly, uscito sul Consitutionnel in data 28 luglio 1884, che così commentava il romanzo, “dopo un tale libro, all’autore non resta che scegliere tra la canna di una pistola e i piedi della croce”, Huysmans con un’ironia spietata rispondeva, in riferimento alla sua conversione:
“Già fatto”.
Articolo a cura di Antonio Merola