Culturificio
pubblicato 4 anni fa in Recensioni

“La notte della felicità”

di Tabish Khair

“La notte della felicità”

Ma, sapete, baraat vuol dire molte, molte cose: innocenza, incontro segreto, salvezza, felicità. (p.17)

Hai presente come ci si sente quando sembra che la vita abbia voglia di farti inciampare senza ragione, con uno sgambetto? Quando vorresti tirare un pugno a qualcosa, urlare nel vuoto? Era così che mi sentivo. (p. 55)

Quel che accade nei piccoli spazi fra le persone è così vasto che spesso misurarlo risulta impossibile. (p.70)

La notte della felicità, dello scrittore indiano Tabish Khair, tradotto da Adalinda Gasparini, è – o almeno dovrebbe essere — ora nelle librerie italiane grazie a Tunué.

Il romanzo si apre con un’allocuzione a un tu generico, un amministratore delegato, un medico, un turista o uno scrittore, che nel rispetto del topos ritrova un manoscritto anonimo il cui titolo, barrato come se ci fosse stato un ripensamento, è L’infinità spettrale delle piccole distanze.

Dal primo capitolo si passa alla narrazione in prima persona: Anil Mehrotra è il capo di un’importante azienda di import-export. Tra i suoi tanti dipendenti viene presentato al lettore Ahmed. La descrizione di questo collaboratore di fede musulmana può ricordare alla lontana quella dello scrivano Bartleby: una figura tranquilla e competente, intorno alla quale aleggiano però un’aura continua di mistero e una triste solerzia.

Anil sulle prime non ha intenzione di assumerlo, anche per via della sua religione; ma una voce del suo curriculum lo convince del contrario: oltre l’inglese, l’hindi e l’urdu, Ahmed parla infatti marathi, gujarati, bhojpuri, bengalese, arabo, francese, tedesco, tailandese, tibetano, giapponese e «rudimenti di cinese».

Il protagonista, attraverso i suoi pensieri, veicola nel corso di tutta la prima parte del libro una forma interiorizzata di razzismo e una visione classista della realtà che lo rendono distante e, per quanto onesto, a tratti antipatico. Ahmed al contrario emerge come personaggio positivo, poliglotta sia per educazione, sia come autodidatta; cordiale e educato con i vicini e i colleghi, sempre con un sorriso triste e una lingua tutta sua:

Mi vennero in mente alcune di quelle frasi che spesso pronunciava, così acute, quasi dei versi, che gli altri chiamavano ahmedismi. Eccovi un ahmedismo dell’altra settimana, poteva dire qualcuno: «La pioggia è un rapporto della terra col cielo». (p. 39)

Ahmed è sempre presente a lavoro, puntuale e preciso: chiede ogni anno, come unico giorno di vacanza, quello di Shab-e-baraat, la notte della felicità, per preparare l’halwa con la moglie Roshni, seguendo la ricetta materna, e pregare insieme per i propri defunti.

Proprio in occasione di questa festività, Anil viene invitato a casa di Ahmed dove gli viene offerta una cena tradizionale. Qui accade un fatto che destabilizza sia Anil che la narrazione: l’halwa non esiste, e Rosnhi non si mostra. Nella notte musulmana che celebra il perdono concesso da Allah, Ahmed che mangia l’halwa è una fantasia naturale, un’allucinazione spontanea e normale. Mehrotra d’impulso è attraversato da un orrore totale, paralizzante; accetta lo stesso il cibo, finché non subentra un senso di spaesamento, poi la rabbia e infine addirittura l’umiliazione. Mehrotra è offeso, rifiuta ciò che non conosce e ora si arrabbia perché non riconosce l’altro. Si affretta a salutare con affettazione Ahmed e raggiunge sua moglie, una letterata, per una cena promozionale cercando di tornare alla sua vita. Ma ci rimugina e pensa a cosa fare:

Dovevo affrontare Ahmed? Chiedergli una spiegazione? Semplicemente licenziarlo? Perché indubbiamente non potevo fidarmi di un pazzo per la gestione dei miei affari, anche se fino ad allora era stato il mio braccio destro. Sapevo di dovere il mio successo negli affari ad Ahmed quanto a me stesso, ma sarebbe stato imprudente e poco consigliabile passare sopra, come se niente fosse, a ciò che mi era successo a casa sua. Un uomo con problemi come quelli di cui evidentemente soffriva Ahmed poteva andar fuori di testa senza preavviso, da un momento all’altro, mandare all’aria un affare importante, o anche presentarsi un bel giorno in ufficio con un fucile. Non potevo ignorarlo. Lo dovevo agli altri dipendenti, a me stesso. Lo dovevo alla mia impresa. E però esitavo ad affrontare Ahmed, tanto più a licenziarlo. Metterlo alla porta così, da un momento all’altro, senza rifletterci, mi pareva una stupida ingiustizia. (p.38)

Mehrotra fugge dalla casa di Ahmed, ma continua a essere ossessionato da ciò che è successo: non riesce a dormire serenamente, rimane a letto più a lungo del solito e a lavoro cerca di evitare l’altro. La sua reazione è esagerata perché, così razionale e inquadrato nei suoi schemi fissi, forte delle sue certezze, non riesce a spiegarsi il comportamento del suo braccio destro. Capirà soltanto alla fine il significato dello sconosciuto rituale.

Poi mi colpì un pensiero: questo non è da te! Stavo cercando di nascondermi dietro a delle storie, mi inventavo delle favole anziché attenermi ai fatti. Mi chiesi: ma come si fa ad attenersi ai fatti? La risposta la conoscevo: ai fatti ci si attiene con prove, dati, numeri. Una favola non la puoi misurare, non può essere dimostrata. Ma i fatti sì, l’ho sempre saputo, ci ho costruito su una carriera, la mia impresa: i fatti possono essere dimostrati.  (p 46)

Decide quindi di assumere un investigatore privato per scavare nel passato di Ahmed. La moglie di Ahmed esiste o non esiste? Ecco perché leggere il romanzo.

Uno dei punti di forza del libro è senza dubbio la combinazione tra soggetti e piani narrativi, che incuriosisce ed è efficace: nella cornice generale di un racconto a un anonimo tu, la ricostruzione del passato di Ahmed si alterna al presente del narratore; mentre il suo passato e il presente di Ahmed, dopo dei brevissimi accenni iniziali, non vengono più raccontati. Negli ultimi capitoli, il racconto del narratore si basa sul rapporto dell’investigatore privato solamente come se fosse una traccia: lo arricchisce infatti attraverso la sua immaginazione, mostrando per la prima volta una vera intenzione di conoscere la persona nella sua identità di Altro, anche nell’aspetto religioso che attraversa tutto il romanzo.

Un personaggio medio vive un’esperienza straordinaria, ai confini. E se il finale impedisce ad alcuni elementi della trama di stagnare nella banalità, vuol dire che Tabish Khair sa raccontare – e bene – una storia.

di Felice Pisolino