Marco Miglionico
pubblicato 9 anni fa in Letteratura

L’inconsolabile Pavese

Il poeta che come Orfeo ha oltrepassato la propria linea d’ombra

L’inconsolabile Pavese

Insomma ci vuole un mito. Ci vogliono miti,
universali fantastici, per esprimere a fondo e
indimenticabilmente quest’esperienza che è
il mio posto nel mondo. 1

I Dialoghi con Leucò furono scritti da Pavese tra il ’45 e il ’47, quando allo stesso tempo l’autore lavorava alla traduzione di The shadow line: a confession, di Joseph Conrad. Senza forzare le coincidenze interpretative in virtù di un’affinità storica e soltanto possibile, è singolare notare che Conrad ebbe sempre allontanato qualsiasi ipotesi interpretativa, tuttavia non escludendo che la “linea d’ombra” fosse quel personale e indefinito momento in cui ciascuno prende coscienza di sé. E constatare la propria umanità significa essere consapevoli dell’irrimediabilità della condizione umana.
Proprio I dialoghi appartengono al periodo più impegnato di Cesare Pavese, quando nelle sue pagine era evidente il disagio intimo, confidato attraverso il personaggio Edipo nel dialogo La strada: “vorrei essere l’uomo più sozzo e più vile purché quello che ho fatto l’avessi voluto. Non subìto così. Non compiuto volendo far altro”. E non sarà errato ascoltare nelle parole appena riportate il rintocco funesto del Leitmotiv ricorrente nelle ultime pagine del suo diario (27 maggio 1950): “La beatitudine del ’48-49 è tutta scontata. Dietro quella soddisfazione olimpica c’era questo: l’impotenza e il rifiuto di impegnarmi. Adesso, a modo mio, sono entrato nel gorgo: contemplo la mia impotenza, me la sento nelle ossa, e mi sono impegnato nella responsabilità politica, che mi schiaccia. La risposta è una sola: suicidio”.
2010047Valutando la facies dei dialoghi, sono evidenti le varie influenze che collaborarono alla stesura degli stessi. Anzitutto, il tono lirico, pacato ma tendente al tragico, è una rielaborazione che Pavese fa dei dialoghi leopardiani (Operette morali); così le idee impregnate di valori religiosi, morali e personali, vengono impresse fotograficamente in maniera spietata. Infatti i dialoghi sono “una sorta di prontuario e catalogo di motivi morali e situazioni [affidati] come a segni mnemonici, a nomi mitologici e simboli culturali”. 2
In funzione della natura mimetica del mito, essi rappresentano e sono rievocazione della prima visione che aveva suscitato nell’uomo primitivo e che una seconda volta poteva essere riproposta dal sentire del poeta. I dialoghi di Pavese perciò sono nuovi, non recuperano i miti integralmente, ma perdendo, ad esempio, il dualismo tra umanità e divinità, recuperano la loro scheletrita natura di poesia semplice. In un articolo che rappresenta una delle letture più intelligenti di un’opera enigmatica, Maria Luisa Premuda ha dimostrato la derivazione di molti miti trattati dal Ramo d’oro di Frazer. Questa, assieme alle altre letture etnologiche di Pavese, in primis Kerényi, permette di distinguere evidentemente quali tra i dialoghi siano dedicati alla caratterizzazione degli uomini nel mito. Se agli dèi appartiene il riso, come rilevato appunto dallo studioso ungherese, agli uomini toccano l’angoscia, l’ignoranza del proprio destino e la consapevolezza della morte: i dialoghi “degli uomini” sono quelli in cui si assommano il taedium vitae di Pavese e la sua mestizia.
“Neppure in quelle più vive e sofferte del Diario sapremmo trovare tanta accorata “autobiografia” quanto nella dolente rappresentazione di Orfeo e del suo destino di escluso […], condannato a una continua ricerca di sé attraverso le epifanie labili e ingannevoli dell’amore e dell’amicizia”. 3 La mitologia in Pavese è contenuta nei limiti dell’autobiografia. Al punto che se il mito è esemplare, impersonale, “di mito a proposito di Pavese non dovrebbe parlarsi”. 4

L’inconsolabile è il dialogo che rielabora il mito di Orfeo ed Euridice. Egli, cantore e viandante nell’Ade, “è vittima lacerata come lo stesso Dioniso” 5; alla fine del suo viaggio iniziatico rinuncia a Euridice, tornando tra i vivi per accogliere il sesso, l’ebbrezza e la carne. Orfeo tuttavia, avendo rinunciato alle benedizioni ctonie, non canta più, non apprezza più la festa, perché “è tutto lecito a chi non sa ancora. È necessario che ciascuno scenda una volta nel suo inferno. L’orgia del mio destino è finita nell’Ade, finita cantando secondo i miei modi la vita e la morte”. 6 Il rifiuto della vita materiale causa l’uccisione di Orfeo da parte delle baccanti di Dioniso, perché il cantore potesse tornare a lui: Dioniso è infatti l’archetipo della vita indistruttibile, 7 è colui che muore e rinasce. I misteri eleusini infatti riproponevano la ciclicità di Dioniso. Uccidere Orfeo è il sacrificio che Pavese reinterpreta come il proprio sacrificio al demone interiore, al suo dio ctonio perché “uno stesso dio sono Ade e Dioniso”. 8Nymphs_finding_the_Head_of_Orpheus
L’identità tra Orfeo e il poeta è chiara fino all’ultimo atto, quando Pavese e Orfeo, credendo di trovare un mostro, trovarono un dio, trovarono il centro dell’esistenza e dell’umanità intera. 9 Entrambi infatti hanno compiuto un viaggio iniziatico, verso l’inesplorato, distaccandosi finalmente dalla comunità. Entrambi hanno accettato la morte come atto etico e necessario. L’identità è tanto più forte quanto più, esplorando la letteratura italiana, rintracciamo esempi che interpretano la figura di Orfeo come quella del primo cantore. Pietro Bembo negli Asolani affida la narrazione del mito di Orfeo al suo Perottino, descrivendo l’azione dei poeti, che, “primi maestri della vita”, raccolti gli uomini che vivevano ancora in condizione bestiale, raccontarono loro le favole “sotto il velame delle quali la verità, sì come sotto vetro trasparente, ricoprivano […] hora con una favola et quando con altra gl’insegnarono a poco a poco la vita migliore”. 10 In virtù della considerazione per cui, sovrapponendosi mythos e logos, anche i miti possano avere, bene interpretati, finalità didattica, il ruolo di Orfeo è ben chiaro. Egli è in prospettiva evemeristica il primo poeta, che ha saputo imporre gli esempi, i logoi, per l’umanità, realizzando l’identità, da Pavese sperata, tra mito e poesia.
Identità necessaria, perché “non c’è processo simbolico che non sia avviato da un’iniziale emozione poetica”; 11 identità impossibile, perché la poesia, avvicinandosi al mito, lo disvela e il mito viene distrutto. È pertanto da sottolineare che Pavese, alla maniera delle Operette leopardiane, si limiti alla mitologia greca, in quanto essa illustra l’aporia fondamentale del mito e della poesia. Irrimediabile è la condizione di Orfeo, inconsolabile appunto, ma soltanto così ha finalmente affermato la propria volontà e non quella delle legge, collaborando al proprio destino.
Soltanto i poeti possono raccontare storie, mai veramente accadute (come già nella mitografia bembiana), specchiandosi nei quali, gli dèi riconoscono ciò che è sempre e che non è ancora mai stato. E anche gli dèi fanno a loro modo “esperienza di libertà”. 12 Al punto da diventare quello che non erano. Nel momento in cui un dio si fa uomo, ne accetta la condizione, la morte irrevocabile, ma insieme con un presagio di eternità. “Anzi, il nuovo, il non ancora mai stato. Ciò che fa di noi non quelli che eravamo, ma gli abitatori di un mondo di là da venire. Paradossale verità del mito”. 13

 

 


 

 

 

1 lettera di Cesare Pavese a Fernanda Pivano (giugno 1942)

2 E. CECCHI, “Paragone”, 1950, p.21

3 E. CORSINI, “Sigma”, I (dicembre 1964), nn. 3-4, pp. 124-135

4 G. GUGLIELMI, “Convivium”, XXVI (1958), pp. 96-97

5 C. PAVESE, L’inconsolabile dai “Dialoghi con Leucò”, Einaudi, Torino 1999, p. 76

6 Ivi, p. 79

7 Cfr. K. KERENYI, Dioniso. Archetipo della vita indistruttibile, Adelphi, Milano 1992

8 ERACLITO, Eraclito delle origini, tr. it. di A. Tonelli, Feltrinelli, Milano 1993, p. 92

9 J. CAMPBELL, L’eroe dai mille volti, cit., p. 29

10 BEMBO, Asolani, I 12

11 S. GIVONE, Introduzione ai Dialoghi con Leucò, Firenze, gennaio 1999, p. V

12 Ivi, p. XII

13 Ivi, p. XV