Una riflessione sulla lettura e sulla scuola a partire da Marcel Proust
Vi hanno mai detto che leggere è divertente? Provate a pensarci seriamente. È una cosa che si sente dire pochissimo, anche e soprattutto a scuola: siano stati buoni o cattivi gli insegnanti che avete avuto, provate a pensare quanto raramente avete sentito promuovere la lettura come attività divertente. Anche le sacrosante campagne di promozione della lettura puntano molto sull’arricchimento personale, la conoscenza che leggere ci effonde, poco sul semplice piacere che una bella storia ci dà. Chiaramente ci sono insegnanti in grado di trasmettere la passione e altri no, ma è proprio questo il problema: dipende tutto da loro, perché la scuola italiana, come sistema, non accende nei giovani la passione per i libri.
Questo emerge anche dal saggio di Marcel Proust Sulla lettura, in origine una prefazione alle conferenze di John Ruskin, dove l’autore della Recherche dichiarava una posizione opposta rispetto allo studioso inglese. Le considerazioni di Proust sembrano andare molto controcorrente rispetto al metodo scolastico attuale, e ci forniscono ancora oggi molti spunti su come cambiare il modo di insegnare a leggere. Questo saggio infatti mostra almeno tre motivi per cui la scuola non riesce a far fronte alla drammatica scarsità di lettori nel nostro Paese.
Il primo è che molto spesso i libri proposti non sono adatti all’età dei ragazzi. Parliamoci sinceramente: un libro come Le ultime lettere di Jacopo Ortis un ragazzo di quattordici anni non lo leggerà mai, e fa anche bene. Ciò non significa che un giovane non possa trovare qualcosa di interessante nelle pagine di Foscolo, Verga o Manzoni (dipende, ancora una volta, dall’insegnante), ma sono letture che, affrontate senza l’adeguato contesto, implicano conoscenze e gusti che forse non sono quelli di un adolescente. Pretendere dagli studenti è sacrosanto, ma si può pretendere moltissimo anche dando da leggere romanzi di avventura o fantasy, per esempio.
Neanche Marcel Proust, a quell’età, avrebbe letto certi volumi, ce lo dice lui stesso: da bambino il suo libro preferito era Capitan Fracasssa di Theofile Gautier: «Ne amavo sopra ogni cosa due o tre frasi che mi apparivano le più belle e originali dell’opera». Capitan Fracassa racconta una storia avvincente ricca di avventure e colpi di scena; un esempio perfetto del classico romanzo d’appendice, all’epoca tanto disprezzato dagli intellettuali, ma a cui Proust ricollega moltissimi ricordi piacevoli della sua infanzia. È molto probabile che un ragazzo oggi non ripensi con gioia a romanzi come I Malavoglia se è stato obbligato a leggerli, e anzi non rimpianga affatto di averli lasciati impolverare sul mobile dopo la verifica di italiano.
Si ottiene così l’effetto paradossale che generazioni di lettori siano diventati tali non grazie alla scuola, ma nonostante la scuola. Tanti ragazzi di oggi hanno iniziato ad amare i pomeriggi trascorsi sui libri grazie a Harry Potter e Il trono di spade, lamentandosi di non poter concludere tutta la saga in una sola estate perché costretti a leggere, come compito per le vacanze, determinati libri. Si parla di generazioni al plurale perché quello che oggi fanno le collane fantasy o i film e le serie tv tratti dai libri, una volta lo facevano i fumetti e Urania. E dire che ci sarebbero centinaia di scelte possibili, anche di autori canonici della nostra letteratura, per arricchire la classica lista di titoli che possano attirare l’attenzione. Non vengono quasi mai dati libri di racconti ad esempio, che invece potrebbero essere degli ottimi primi passi: dal fantastico di Hoffman all’horror di Poe e Lovecraft o, per restare in Italia, Le cosmicomiche di Calvino o le raccolte di Buzzati e Savinio. Insomma, di proposte alternative se ne potrebbero trovare un’infinità se si pensasse che il fine della lettura è anche quello di divertire. E se ne dovrebbero trovare il maggior numero possibile.
Il secondo aspetto che ammazza la passione per il libro è infatti la standardizzazione delle letture. Questo perché l’esercizio del leggere viene visto dai programmi scolastici come una corsa a ostacoli che progredisce a tappe, per arrivare alla fine di un percorso di studi dove tutti gli studenti hanno letto all’incirca gli stessi testi. Nessuno vuole mettere in dubbio che esistano letture irrinunciabili, ma queste devono essere affiancate ad un’offerta che tenga conto delle individualità degli studenti. Bisogna partire dal presupposto che quanto un adulto legge dipende molto dall’esperienza che della lettura ha fatto da ragazzo, e se quell’esperienza è stata subita come un’imposizione o un’omologazione, difficilmente verrà ripetuta in futuro. Sarebbe molto importante che i ragazzi capissero quanto leggere possa significare trovare uno spazio che sia completamente loro, in cui lasciarsi trasportare da una storia o da un’idea che davvero li affascina.
Proust insiste molto sulla lettura come esperienza innanzitutto individuale, infatti crede che leggere significhi «venire a conoscenza del pensiero di un altro senza smettere di essere soli, vale a dire continuando a godere del vigore intellettuale che si ha in solitudine, e che la conversazione dissolve immediatamente, continuando a restare ispirati, in pieno lavorio fecondo della mente su sé stessa». Il fatto che molto spesso uno studente non sia abituato a proporre lui stesso un testo all’insegnante, e che anzi debba accettare una e una sola proposta comune a tutti i compagni elimina l’importantissimo carattere individuale connesso all’atto di leggere. In una delle immagini più belle del breve saggio, infatti, lo scrittore della Recherche paragona il gesto della lettura all’abitare una stanza d’albergo, una stanza che ci appartiene per un ristretto periodo di tempo, ma che possiamo comunque arredare rendendola nostra, «una stanza tutta per sé» come la definisce anche Virginia Woolf nel saggio omonimo del 1929.
Solo entrando nella nostra stanza e respirando la vita contenuta al suo interno ci affezioniamo a un gesto che, soprattutto oggi, soffre la competizione di molte alternative: dalle serie TV, ai film e ai videogiochi. Bisogna essere consapevoli che anche da tutte queste attività si può imparare qualcosa, in alcuni casi allo stesso modo di quanto si impara leggendo. Per apprezzare davvero la lettura, ci dice Proust, dobbiamo smetterla di considerarla come l’unica esperienza intellettuale in grado di arricchirci, e «attribuirle nella nostra vita spirituale il ruolo preponderante. […] La lettura sta sulla soglia della vita spirituale; può introdurci ad essa: ma non la costituisce».
Il timore reverenziale di cui viene caricata la grande letteratura è un altro aspetto che scoraggia e intimorisce gli studenti. La narrazione che ancora permea la scuola italiana abitua i ragazzi a considerare il testo come qualcosa che ci arricchisce veramente solo quando esige da noi una fatica necessaria. Questo è sicuramente vero e oserei dire che costituisce il bello per molti autori (e comunque anche nei temibili Gadda, Svevo e Manzoni ci sono passi divertentissimi), ma siamo sicuri che sia questo il modo giusto di spingere i ragazzi a leggere? Perché non è vero che arrivare alla fine di un libro è come scalare una montagna: non è detto che il massimo della fatica corrisponda al massimo della vista una volta arrivati in cima, ci sono troppe variabili in gioco e sono le variabili tutte interne al lettore. Continuando a ripetere l’enorme privilegio che si ottiene una volta arrivati in vetta ci si dimentica di insegnare il piacere di camminare.
Del resto, ci dice ancora una volta Proust, «avvertiamo chiaramente che la nostra saggezza finisce dove inizia quella dell’autore, e vorremmo che ci desse delle risposte, mentre tutto quello che può fare è suscitarci dei desideri». In un Paese dove i dati sui lettori mostrano di anno in anno un quadro sempre più desolante, forse bisogna chiedersi se sia più importante che uno studente esca da scuola dicendo di aver letto l‘Ortis, o con un autentico desiderio di aprire ancora i libri lasciati sul suo scaffale.
di Daniele Rigamonti