Carlo Collodi, “Le avventure di Pinocchio”
Cari bambini e cari genitori,
la prima storia che ricordo di aver ascoltato è quella di Pinocchio: mio padre me ne leggeva un capitolo la sera prima di dormire.
Quel libro lo conservo ancora, nonostante il dorso sia tutto sfilacciato, le pagine ingiallite e costellate di macchie.
L’ho letto ai miei bambini e ogni volta che lo guardo in libreria mi sembra di vederci la mia infanzia lì, racchiusa, al sicuro, con il burattino di legno più famoso del mondo.
Il suo autore è Carlo Collodi, o meglio, Carlo Lorenzini, un uomo coraggioso e vivace, con la testa piena di idee, e il cuore di ideali.
Nato a Firenze nel 1826, è il primo di dieci figli di una famiglia di umili origini: la madre è cameriera per il casato toscano Garzoni Venturi e poi per la famiglia Ginori, mentre il padre è cuoco presso la stessa famiglia.
Carlo ha la fortuna di studiare, affidato alle cure di una zia, a Collodi. È un bambino disobbediente, irrequieto, polemico, ma nonostante queste sue inclinazioni studia in seminario in val d’Elsa e successivamente dai Padri Scolopi a Firenze. Quando il fratello Paolo diventa dirigente della manifattura Ginori, la famiglia Lorenzini gode di un’agiatezza nuova e Carlo riesce a smarcarsi dagli studi in seminario e a dedicarsi alla sua passione: scrivere.
Nel 1947 scrive per la rivista milanese «L’Italia musicale» un articolo sull’arpa e nel 1849 fonda un periodico di satira politica «Il Lampione» che viene chiuso dopo la temporanea restaurazione granducale, ma a cui Carlo resta talmente affezionato da riaprire undici anni dopo.
Collabora poi con altri giornali – ricordiamo «Scaramuccia» e «Fanfulla» – , partecipa alla redazione di un dizionario di lingua parlata, diviene un giornalista che sa descrivere la realtà del suo tempo con ironia e invenzioni linguistiche.
Carlo Collodi è un intellettuale risorgimentale. Le sue idee non si fermano sulla carta, lo spingono a partecipare alle rivolte del 1848-49, alla seconda guerra di indipendenza nel 1859,a sposare le idee mazziniane avendo come vessillo un puro patriottismo.
Nel 1856 sul giornale umoristico fiorentino «La lente» si firma per la prima volta con lo pseudonimo di Carlo Collodi; allo stesso anno risalgono i suoi primi romanzi Gli amici di casa e Un romanzo in vapore. Da Firenze a Livorno. Guida storico-umoristica che racconta l’innovazione tecnologica della ferrovia.
Collodi riesce a cogliere le sfumature divertenti e a raccontare il suo tempo in modo nuovo, rivelando la sua voglia di scoprire il futuro ed esserne parte attiva.
Ma veniamo al Collodi che conosciamo tutti, grande scrittore per l’infanzia, creatore di un personaggio immortale come Pinocchio, ma non solo.
Nel 1875 riceve l’incarico di tradurre le più famose fiabe francesi dall’editore Felice Paggi; nasce il volume I racconti delle fate dove Carlo non si limita a tradurre le fiabe di Charles Perrault e altri famosi scrittori francesi ma aggiunge una morale, assecondando la sua vocazione “didattica”.
Due anni dopo venne pubblicato Giannettino, suo primo testo scolastico, un rifacimento del Giannetto di quaranta anni prima di L. A. Parravicini.
Giannettino è un discolo che cerca di imparare: Collodi innova lo stile e, come accadrà con tutti i successivi libri, unisce la didattica alla narrazione: Minuzzolo, La geografia di Giannettino, La grammatica di Giannettino per la scuola elementare, fino all’ultimo della serie La lanterna magica di Giannettino.
Nell’estate del 1881, sul primo numero del periodico per l’infanzia «Giornale per i bambini» (pioniere di questo genere diretto da Ferdinando Martini), uscì la prima puntata de Le avventure di Pinocchio, con il titolo Storia di un burattino.
Il racconto si concludeva con il famoso capitolo dell’impiccagione: Pinocchio concludeva tragicamente il suo percorso e l’autore non sembrava avere intenzione di giungere a un lieto fine.
I piccoli lettori protestarono a viva voce – i bambini d’altronde si aspettano sempre un finale felice –, e l’editore convinse Collodi ad andare avanti.
Nel 1883 furono pubblicate da Felice Paggi Le avventure di Pinocchio raccolte in volume: un’opera intramontabile, pubblicata in centottantasette edizioni e tradotta in duecentosessanta lingue e dialetti, un racconto che si può leggere privilegiando punti di vista diversi, sempre attuali, che pone davanti a sfide così universalmente umane da riuscire ad attraversare il luogo e tempo.
Con Pinocchio nasce un nuovo tipo di fiaba: i protagonisti non sono più eroi positivi programmati per superare ogni difficoltà, ma bambini veri, insicuri, curiosi, sempre pronti a sbagliare, a mentire per uscire dai guai, ma che, nonostante gli errori, cercano di guadagnare il loro lieto fine (proprio come i lettori che costrinsero Collodi a riscrivere il finale per il suo burattino).
Nel 1890 Collodi morì all’improvviso, all’apice del successo, poco prima dei sessantaquattro anni.
di Carlo Collodi leggiamo: Le avventure di Pinocchio
«Guarda che ti cresce il naso come Pinocchio!»
Esiste un bambino che non abbia sentito questa assurda minaccia, e poi non si sia toccato il naso perché… non si sa mai?
Probabilmente no, e se ancora esiste non tarderà a sentirselo dire perché continueremo a leggere Pinocchio ai nostri piccoli, poi lo guarderemo nella sua versione animata e magari anche in una di quelle cinematografiche.
Pinocchio, un pezzo di legno che conquista la sua forma di burattino parlando, ridendo e piangendo perché ha la fortuna di essere ascoltato da un falegname speciale: Geppetto, uomo solo e senza figli con un cuore di padre.
La fiaba nasce proprio da questo incontro meraviglioso. Il nostro pezzo di legno non sarebbe mai diventato il protagonista di mille avventure se Geppetto non avesse avuto la sensibilità necessaria per ascoltare e dar forma alla sua voglia di vivere.
Immediatamente il burattino è fonte di guai per il suo povero babbo; per nulla grato di essere stato creato, scappa e comincia la sua corsa per il mondo che vuole conoscere con impazienza, senza avere gli strumenti per stare lontano dal male ed interpretare la realtà che lo circonda.
Geppetto finisce subito in galera perché rincorre il figlio fuggitivo e viene frainteso dalle guardie che credono voglia fargli del male.
Quando il burattino torna a casa trova ad aspettarlo il Grillo Parlante, la voce di una coscienza che non può tacere di fronte alle malefatte e che lo mette di fronte ai suoi errori. Pinocchio non esita a zittirlo schiacciandolo sul muro con un martello.
Geppetto torna a casa e sembra aver già dimenticato il male causato dal suo figliolo di legno; vuole dargli un’istruzione e vende la sua unica casacca per comprargli un abbecedario, dando vita a una scena che è il ritratto della situazione socioculturale di un’Italia povera e contadina.
Pinocchio esce per andare a scuola, tra le mani il suo libro, una mela e i sogni di suo padre, è armato delle migliori intenzioni ma la voglia di vedere lo spettacolo dei burattini pubblicizzato per strada è così tanta che vende l’abbecedario in cambio del biglietto, e incontra così i suoi simili e il loro padrone, il tremendo Mangiafuoco.
L’impresario dei burattini prima minaccia di gettarlo tra le fiamme, ma poi si lascia commuovere dalla sua storia e gli regala cinque soldi per quel povero padre che immagina deluso e spaventato alla ricerca della sua speciale marionetta.
Pinocchio è felice di poter portare a Geppetto quelle monete sonanti, sa di aver sbagliato e di avergli causato una grande sofferenza (la consapevolezza di poter fare del male con le sue azioni comincia a crescere con lui), ma purtroppo si lascia abbindolare da due falsi profeti: il Gatto e la Volpe.
I due malfattori lo convincono a piantare la sua fortuna in un campo miracoloso: perché accontentarsi di cinque monete quando potrebbe averne molte di più se le sotterrasse nel campo per vederle trasformate in un albero di zecchini? I due sono intenzionati a derubarlo e così, travestiti da assassini, lo inseguono, e per rubargli le monete lo impiccano ad una quercia.
La storia, nelle intenzioni dell’autore, doveva finire così. Pinocchio era stato un cattivo figlio, aveva deluso chi lo amava, aveva ottenuto una seconda occasione ma era stato così ingenuo da cadere in una trappola e aveva pagato la sua ingenuità a caro prezzo.
A noi che conosciamo tutta la storia sembra assurdo pensare a un finale così negativo e privo di speranza. Immaginiamo la delusione dei piccoli lettori dell’epoca, già affezionati a quel discolo di un burattino che non potevano lasciare impiccato a un albero tra i rami dei suoi errori e delle sue sfortune.
Collodi accettò di proseguire la storia e lo fece mettendo in scena un personaggio nuovo: la fata dai capelli Turchini, simbolo di generosità e altruismo, di pazienza (è proprio qui che Pinocchio comincia a raccontare la serie di bugie che fa allungare a dismisura il suo naso), di speranza; una figura che aiuta il povero burattino a riprendersi dalle ferite dell’orgoglio più che del legno, e gli offre l’ennesima occasione di tornare a casa dal suo babbo.
Ma nemmeno questa è la volta buona, Pinocchio viene derubato nuovamente dal Gatto e la Volpe, finisce in galera condannato dal Giudice Acchiappa Citrulli e viene a sapere che Geppetto, partito alla sua disperata ricerca, si è inabissato con la sua barchetta.
Un colombo si offre di aiutarlo e portarlo alla ricerca del padre, Pinocchio cerca in mare disperatamente la barchetta del padre ma le onde lo trascinano all’Isola delle api industriose. Qui, disperato e attanagliato dai morsi della fame, viene aiutato da una donna (ancora una volta la fata dai capelli turchini) che lo rimette in piedi, lo sprona a compiere il bene, ma viene nuovamente delusa.
Pinocchio scopre da un delfino che Geppetto è stato inghiottito da un pescecane: il suo cuore è in tumulto, litiga con i suoi compagni, un ragazzo viene ferito e per scappare dalla possibile galera si tuffa in mare.
Tra le onde incappa nella rete di un mostruoso pescatore che vorrebbe friggerlo in padella, viene salvato da Alidoro, torna dalla fata e le promette di comportarsi bene. La fata visto l’impegno del burattino e le buone intenzioni che sembrano sempre più radicate in lui gli promette di trasformarlo in un ragazzo in carne e ossa, ma altre insidie allontanano l’agognata trasformazione.
Pinocchio parte con il suo amico Romeo, detto Lucignolo, per il paese dei balocchi, lontano dalla quotidianità così perbene e noiosa, forse spaventato dall’idea di diventare un bambino come gli altri, costretti a obbedire agli adulti, a mettere da parte libertà e fantasia a favore di regole opprimenti. Qui dopo cinque mesi passati a gozzovigliare nel tentativo di dimenticare le sofferenze causate e le proprie responsabilità, il burattino viene trasformato in un ciuchino.
Nelle sue sembianze di asino Pinocchio viene comprato da un imprenditore teatrale che lo fa partecipare a umilianti spettacoli, fino a che zoppo e inutile deve essere gettato in mare con una pietra al collo.
È ancora l’intervento della fata, che lo trasforma di nuovo in burattino, a salvare Pinocchio in mare; qui viene inghiottito dal pescecane.
Gli ultimi dei trentasei capitoli sono i più concitati: nel pescecane Pinocchio intravede una luce lontana, vi si avvicina e ritrova Geppetto. La gioia è indicibile e il cuore del burattino ne è davvero trasformato. Vedere la felicità di suo padre che non ha smesso di amarlo nonostante tutto, che accoglie il suo ritorno come l’unica cosa che importi al mondo, che vede sempre e solo la sua parte buona, cambia tutto.
Pinocchio trova sé stesso in quell’amore incondizionato e si dedica a studiare un modo per salvare Geppetto con rinnovata fiducia e inestinguibile energia.
Approfittando dell’asma che costringe il grande pesce a dormire con la bocca aperta e trainati dal coraggio di Pinocchio che vuole riparare ai suoi errori, i due riescono a fuggire dalla loro prigione e, aiutati da un tonno, giungono a riva.
Padre e figlio si sistemano in una capanna, Pinocchio si prende cura del padre ripagandolo dell’amore mai spento e, giunti fin qui dopo mirabolanti avventure, è il momento dell’epico finale: la fata turchina trasforma la marionetta in un bambino vero regalando il tanto agognato lieto fine a una storia che sembrava non volerlo acciuffare.
Cosa troviamo nella marionetta di legno che da secoli cattura la nostra attenzione?
Dentro Pinocchio c’è il suo autore, scavezzacollo fin da bambino, mai contento e sempre alla ricerca di altro (chissà se l’unità d’Italia che tanto aveva sognato corrispose ai suoi sogni o lo lasciò amareggiato); ci siamo noi, alla ricerca di una seconda occasione, di quel momento che sembra non arrivare mai di fare le cose nel modo giusto; ci sono i nostri bambini, pieni di contraddizioni, di stimoli negativi, di desideri pericolosi e incomprensibili, di noia, di voglia di toccare tutto con le proprie mani, anche quello che scotta, ma anche irrimediabilmente capaci di trovare il loro bene, il loro essere felici.
In quella marionetta snodata c’è il nocciolo della condizione umana: il desiderare costantemente altro da sé che spesso si trova nell’affetto degli altri, in uno sguardo che evita le debolezze e abbraccia i punti di forza di ciascuno di noi.
Pinocchio è anche simbolo della sfida educativa: è un inno alla libertà dei più piccoli, è un invito agli educatori a non soffocare la fantasia, a usare gli errori per costruire un sentiero che ne tenga conto ma che li superi, una volta compresi ed elaborati.
Siamo di fronte a un libro meraviglioso, che, scritto per divertire piccoli lettori è stato e continua ad essere capace di stimolare e commuovere gli adulti.
Pinocchio è un inno alla speranza, anche contro la volontà del suo autore, è l’affermazione che il bene può vincere, non grazie all’intervento della magia, ma grazie a uno sguardo d’amore e di fiducia; è un invito a superare i propri limiti, anche quando sembrano definirci e non vogliono lasciarci scampo.
Leggerlo insieme ai bambini è un’esperienza che non potete perdere: nei loro occhi attenti e divertiti ritroverete la vostra infanzia, vi lascerete andare e crederete di nuovo alle fate, ma allo stesso tempo vi ritroverete inteneriti e commossi perché vi sentirete un po’ Geppetto, l’adulto dal cuore d’oro che aspetta con fiducia la vittoria di quel bene vero che aveva intravisto in un semplice pezzo di legno.