“Cuori di nebbia” di Licia Giaquinto
Conoscevo il limite. Vivevo sulla soglia. Abitavo un’esistenza in bilico su una cresta: al di qua e al di là, un affaccio panoramico sui due mondi.
Vivi o morti, era l’unica possibilità offerta all’uomo dalle leggi di natura.
Il destino e la rinnovata speranza di Cuori di nebbia di Licia Giaquinto, appena uscito per TerraRossa Edizioni, erano e sono già incisi tra le sue stesse pagine già dall’incipit, con l’immagine profetica del giorno che, quasi come un personaggio, procede a fatica: i piedi rivolti in avanti e la testa all’indietro, verso la notte, indeciso tra il buio e la luce. Perché ci sono libri che negli anni restano nascosti e come sospesi. Hanno visto la luce della pubblicazione ma è come se, per estrema coerenza, la loro tormentata storia editoriale non possa fare altro che riecheggiare i temi e le atmosfere notturne in cui sono proiettate le storie che raccontano.
Scrivere di Cuori di nebbia, un noir sullo spaesamento, significa innanzitutto ricordare come il romanzo uscì nel 2007 per Dario Flaccovio Editore e come, a seguito della pubblicazione per Adelphi di La ianara, il libro fosse andato vicino a una nuova veste editoriale, sempre per Adelphi, salvo un ripensamento finale da parte di Roberto Calasso. E se oggi possiamo nuovamente leggerlo e riscoprirlo è grazie a Giovanni Turi e alla sua TerraRossa, ma anche al contributo di Giuseppe Girimonti Greco.
Tardi anni Novanta: lungo la via Emilia, nella località di Bruciata, sorta di finis terrae tra Sassuolo, Campogalliano e Modena, dove la strada si restringe per lavori in corso e devia in una direzione obbligata in un clima freddo, umido, piovoso e tetro, si incrociano le esistenze di sette personaggi in bilico tra salvezza e dannazione.
C’è una coppia di contadini, Mirella e Filippo, uniti dagli interessi economici e non dall’amore. Accettano entrambi il tradimento dell’altro per continuare il proprio e così, per esempio, la notte Filippo può scivolare fuori dal letto coniugale per frequentare prostitute, tra cui la russa Natascia, della quale si innamora perdutamente. E c’è Nicola, che spesso si aggira per la campagna a spiare le coppiette, perché è un guardone fin da quando, ancora ragazzino, ha visto i propri genitori farlo nella capanna degli attrezzi. Ci sono Francesco e il suo rapporto irrisolto con il cibo, e Mirco, che nella distesa di campi piatti e sterili, tagliati dalla ferita di asfalto della strada, trova una scatola avvolta in una busta di plastica sigillata con dentro tanti mazzetti di banconote. E infine c’è Patrizia, una prostituta drogata, «alta e magra come un palo della luce», con le gonne lunghe, le collane, gli orecchini, la sacca e il viso scarnificato, incorniciato dall’aura opaca della morte. Perché c’è la morte in agguato e qualcosa sta per accadere o è già accaduto quando iniziamo a leggere il romanzo, ed è quindi ormai irredimibile.
E questo senso di ineluttabilità, molto simile a quello della tragedia greca, è amplificato dalla struttura dell’opera. Le voci dei personaggi, infatti, capitolo dopo capitolo, si alternano in prima persona, da una condizione che non capiamo bene quale sia, come fossero ancora conficcati nella vita o già scivolati nelle viscere della morte. Le loro voci che, attraverso un uso ripetuto di anacoluti, aderiscono al parlato, seppure con delle differenze, perché per esempio il registro linguistico delle prostitute sembra essere più alto rispetto a quello dei contadini, i quali ricorrono spesso a metafore e similitudini proprie del regno vegetale e animale circostante, come fossero fatti della stessa terra e dello stesso letame che rimestano e calpestano: «Io nella testa c’ho la pianura padana in inverno», dirà a un certo punto Filippo. Ogni voce esprime la propria solitudine e rabbia, ma anche i sogni, le aspirazioni, le fragilità. Voci di uomini e donne separati gli uni dalle altre che pure, inconsapevolmente, sono legati da una tragedia imminente, il restare irrisolti su una soglia.
Case sparse. Visioni di case che crollano è il titolo di un documentario che Gianni Celati girò nel 2003 lungo la pianura padana per tentare di cogliere il legame tra le storie e i luoghi, nonché la perdita di valori in quel nuovo paesaggio sociale e metafisico che moltiplica all’infinito lo sguardo in lontananza. È anche una riflessione sulla modernità, sulle condizioni del vedere e del percepire, e un tributo a Luigi Ghirri che con la sua opera fotografica aveva tentato di fissare l’essenza di quegli stessi luoghi. Di oscurità e di luce, di fantasmi, forse, di spettri, di visioni di case sparse e fabbriche di ceramiche e corpi che crollano, di camion e motrici senza carrozza che transitano nella notte e con i loro fanali illuminano brandelli di campagna glassata dalla galaverna, di tutto questo e molto altro ancora si compone Cuori di nebbia, che TerraRossa come suo solito ha deciso di presentare con una copertina di Francesco Dezio, illustrazione che a sua volta è una visione alterata di uno scatto di Luigi Ghirri: Formigine. Ingresso casa colonica.
Nell’originale, due colonnine indicano dei limiti entro i quali lo spazio si rappresenta. Ma questo spazio – cosa c’è là in fondo? – è abitato soltanto dalla nebbia quale segno estremo di cancellazione del mondo. «Ho sempre pensato», scrive Luigi Ghirri, «che la fotografia sia una finestra aperta sul mondo». E infatti i suoi scatti sono pieni di finestre, di porte, di soglie: quest’ultima, un’immagine fondamentale per comprenderne la poetica. Soglia come passaggio, «confine tra l’interno, quello che pensiamo, quello che vediamo, quello che possiamo vedere, quello che dobbiamo vedere e quello che vediamo nella realtà e che determina un’osservazione comune, cioè tra il nostro mondo interno e l’osservazione del mondo. Questo punto di equilibrio io penso di averlo identificato con l’inquadratura».
C’è in questo scatto un varco, l’idea di un pensiero-paesaggio che si fa geografia emozionale e che trova nel romanzo di Licia Giaquinto una sua rinnovata declinazione grazie alla ridda di voci che giunge a noi dalla coltre di nebbia.
Come se Cuori di Nebbia fosse la messa in movimento di una inquadratura – Formigine. Ingresso casa colonica –, la sua implacabile partitura sonora e l’invito suadente a varcare la soglia.