Stigliani, Colombo e il Mondo Nuovo
una santa missione per un Capitano tonto
Il Mondo Nuovo è un poema epico sulla scoperta dell’America, scritto all’inizio del Seicento da Tommaso Stigliani (1573-1651), poeta e intellettuale materano che fu una figura di spicco del panorama letterario barocco, al punto da avere diversi battibecchi con il più fulgido rappresentante della lirica seicentesca, Giovan Battista Marino.
Le avventure narrate nel Mondo Nuovo sono tante e dispersive, ma basterà sapere che esse hanno per protagonista Cristoforo Colombo. Stigliani scrive varie edizioni dell’opera, ampliando e rivedendo il testo e il racconto. Quella su cui vorrei riflettere è del 1617.
Siamo all’inizio della vicenda (Canto I): scampati a una tempesta nella quale hanno smarrito tutto il vettovagliamento, sull’isola della Gomera (nelle Canarie) Colombo e i suoi marinai sbarcano su una spiaggia e subito, sparpagliandosi, si mettono alla ricerca di cibo e acqua, sparpagliandosi e dividendosi per il territorio ignoto. Il Capitano si inoltra così in una selva folta e all’improvviso
si trovò solo in un prato, / verde e fiorito, e quasi un’ampia scena, / di colli cinto, e d’arboscelli ombrato.
In questo scenario idilliaco, Colombo si sofferma a ammirarne la bellezza, finché percepisce «un novello romor d’ale volanti». Vede così in lontananza «passar’un grand’augel per l’aria ratto» e medita di farne una preda per la sua caccia. Nella scena si respira una forte tensione:
onde per far caderlo ucciso al piano, / com’aveva altre volte ad altri fatto, / toltosi giù di spalla, e concio in mano / l’ordigno, che dal fulmine fu tratto, / col dito, che di sotto un punto tocca, / chinò il ferrigno can, c’ha il foco in bocca.
Il buon Capitano è intento, concentrato sul bersaglio, oculato nei singoli movimenti come ogni buon cacciatore prima di sparare alla preda, e persino il fucile, sotto la brama omicida di Colombo, sembra animarsi e voler riversare sul malcapitato volatile tutte le sue fiamme.
All’apice dell’episodio, però, quando al Capitano non resta che esercitare una piccola pressione sul grilletto, egli sente un «sì improvviso orror, ch’entro l’afferra», al punto che il fucile gli cade quasi di mano e lui stesso a stento riesce a non crollare. Colombo resta immobile, esterrefatto, senza capire da dove sorga questa forza e perché. Il volatile che il Capitano stava per abbattere per farne una vivanda da condividere con i suoi marinai, in realtà, è un messo di Dio, bello e splendente, che giunge ad annunciargli l’elezione divina per la scoperta di un nuovo mondo.
La scena, di per sé, pare di poco conto. La descrizione del Capitano che imbraccia l’archibugio, aulica e ricca di metafore in pieno stile Barocco, è di una preziosità tanto pomposa da oscurare qualsiasi altro aspetto del momento narrativo; è tanto ingombrante l’aspetto stilistico e la minuzia delle azioni narrate da estromettere tutto il resto, agli occhi del lettore. Sono tuttavia le riflessioni che, inevitabili, nascono dopo l’agnizione dell’angelo a far riconsiderare l’episodio: in buona sostanza, Colombo, distratto dalla fame, ha rischiato di ammazzare un angelo che veniva a profetizzargli il volere di Dio.
Il valore degradante e comico della scena può essere misurato almeno sulla base di due considerazioni. La prima: l’episodio del fucile viene espunto nell’edizione del 1628, segno che forse l’evento narrato è un po’ troppo persino per Stigliani, che fa passare per sciocco l’eroe del poema (possibile che non si sia reso conto che quello fosse un angelo?). La seconda: Colombo che sta per sparare al messo celeste ridisegna e abbassa il solenne momento dell’Annunciazione, così come lo presentano la tradizione evangelica e quella letteraria.
L’unico evangelista a narrare l’Annunciazione è Luca (1 26-38). La scena, ben nota anche attraverso l’iconografia cristiana, vede l’Angelo manifestarsi direttamente a Maria, salutandola con la famosa formula: «Ave, gratia plena, Dominus tecum» e profetizzandole la nascita di Gesù per mezzo dello Spirito Santo. Nel testo di Stigliani, l’atteggiamento dimesso di Maria ha il suo contraltare nell’aggressività venatoria di Colombo: il Capitano, che attende il pennuto con l’archibugio spianato, può essere (blasfemamente) assimilato a Maria che aspetta l’arcangelo Gabriele con un mattarello in mano. È ovvio che in questa maniera, nel Mondo Nuovo, la valenza religiosa dell’episodio, e quindi di tutti i suoi elementi costitutivi, viene ridimensionata. Colombo non appare come il destinatario privilegiato di un ufficio divino, ma come uno sprovveduto buzzurro che sta per privarsi del più grande onore della propria vita. L’angelo si configura come un incauto ragazzetto imberbe, che quasi si diverte a scherzare con un condottiero agguerrito e bellicoso. Infine, il messaggio recapitato, ossia la profezia della conquista di un mondo nuovo, finisce per essere visto come un compito spropositatamente grande e proibitivo per un omaccione che non è in grado di distinguere un pennuto da una creatura celeste.
Ecco: tutte queste sensazioni e interpretazioni degradanti svaniscono se si legge l’ottava riscritta e ‘epurata’ dell’edizione del 1628, prima della quale sparisce ogni riferimento al confuso Colombo, alla forza improvvisa che lo frena da sparare e allo sgomento del Capitano:
E vide (o che gli parve) un grande augello / scender d’alto, / e posar le proprie some / poco lungi da lui su un arboscello. / Ond’egli ito vicin conobbe, come / questi era un leggiadrissimo donzello, / ch’avea volto vermiglio, e bionde chiome: / a cui spuntar non si vedea ancora / la molle piuma delle guance fuora.
Si può ragionare sulla valenza comica dell’angelo appollaiato su un «arboscello» (un alberello o un arbusto); ma, al di là di questo, è sicuro che qui Colombo ricorda un po’ di più la Vergine che riceve il messo celeste: in gergo, sembra un po’ più una figura Mariae (immagine, simulacro di Maria).
L’opera di svilimento dell’Annunciazione da parte di Stigliani agli occhi del pubblico seicentesco può diventare ancora più evidente se si paragona la scena del Mondo Nuovo con quella narrata invece da Tasso, circa quarant’anni prima, all’inizio della Gerusalemme Liberata, il grande poema epico sulla crociata.
Tasso racconta che l’esercito cristiano porta avanti l’assedio a Gerusalemme molto blandamente. Tutti gli eroi cristiani sono, per un motivo o per un altro, distolti dal loro reale obiettivo, la conquista della Città Santa; solo Goffredo di Buglione, il capo dell’esercito, appare concentrato sullo scopo:
[Dio] vide Goffredo che scacciar desia / de la santa città gli empi pagani, / e pien di fé, di zelo, ogni mortale / gloria, imperio, tesor mette in non cale (I 8).
Goffredo è ritratto da subito, con rapide e essenziali pennellate, come il campione della fede, disinteressato a cose che non siano cose divine.
E proprio a lui Dio invia il suo Gabriele, perché solleciti Goffredo a riprendere le ostilità contro i pagani e conquisti Gerusalemme. Gabriele così scende sulla terra, assumendo sembianze adolescenziali di «celeste maestà», vestendo le sue ali bianche cimate d’oro, e volando veloce sulla Terra. Goffredo, al momento della visita del messo, è devotamente occupato nei suoi «mattutini prieghi», quando l’angelo gli appare con la lucentezza di un sole più brillante: e così gli porta il messaggio, lo esorta a riprendere con sollecitudine la guerra e a rinfocolare nei compagni lo spirito cristiano, lo investe della carica di «duce» per volere di Dio e sparisce. Goffredo, dopo essersi ripreso dallo stupore, si anima per compiere la volontà superna (I 13-18).
Il confronto fra i due condottieri, Colombo e Goffredo, è impietoso per il Capitano genovese. Con il fucile spianato a attendere la presunta cacciagione il primo, tutto preso dalle sue preghiere mattutine il secondo; incapace di distinguere l’angelo appare Colombo, subito ricettivo è invece Goffredo (si legge infatti «l’angelo gli apparì da l’oriente», come a voler evidenziare che Goffredo non ha dubbi sulla natura divina del suo interlocutore); il Capitano è loquace al limite della logorrea, poiché parla per due ottave all’angelo assiso prima che questi possa aprir bocca, mentre il Buglione è tanto silenzioso che non proferisce parola né prima, né durante, né dopo il colloquio. E si può aggiungere anche un ulteriore elemento, a completare l’impietoso ritratto di Colombo.
L’angelo, dopo il messaggio, gli consegna una «verga» che gli permetterà di eliminare ogni «magico ordimento», cioè ogni maleficio, ma che soprattutto gli consentirà di essere ubbidito sempre dai suoi. Fa riflettere, in male per Colombo ovviamente, il fatto che Goffredo, impegnato in una missione altrettanto importante, non abbia bisogno di nulla al di fuori della sua parola per essere obbedito dai suoi in nome di Dio, mentre Colombo, per fare lo stesso, debba necessariamente brandire un bastone, come se non bastasse la sua autorità. Senza contare che il Capitano la terrà nascosta e sentirà l’esigenza di spacciarla per un dono di Re Fernando, anziché come un dono divino.
Le differenze fra i due condottieri, di per sé già evidenti, è probabile che balzassero maggiormente all’occhio di un lettore esperto di poemi epico-cavallereschi come quello del tardo Cinquecento. La figura di Colombo, quindi, almeno nell’edizione del 1617, viene impietosamente assimilata a quella di un comandante rozzo, con poco o nessuno spirito di osservazione, pronto a sterminare qualunque cosa se un’assistenza dall’alto non lo blocca in tempo, magniloquente al limite della parodia e del cattivo gusto (una brutta imitazione del san Bernardo dantesco, che rivolge altissime lodi alla Vergine nel XXXIII del Paradiso, una pessima immagine di fedele in base a Proverbi 11 12: «vir autem prudens tacebit», tacerà l’uomo prudente), persino inetto nell’arte del comando non di eroi (come quelli al servizio di Goffredo nella Gerusalemme), ma di un manipolo di marinai significativamente descritti come «caute formiche», se non fosse per la verga divina.
L’eroe di Stigliani, insomma, doveva iniziare la propria epopea col piede sbagliato e destare da subito nel lettore un’idea non propriamente mitica. Certo è che l’edizione del 1628, con i tagli ad essa apportata dall’autore materano, se da un lato contribuisce a migliorare la rappresentazione del protagonista, dall’altro è pur vero che la banalizza, privandolo di quel tratto (comico) di umanità: il che, in fin dei conti, per restare alla Gerusalemme, è ciò che fa amare i personaggi che hanno qualche debolezza come Rinaldo e Tancredi, e non riesce invece a far appassionare fino in fondo il lettore al buon Goffredo.
Questo testo nasce dalla relazione tenuta al convegno “Il Mondo Nuovo a Matera: Unibas legge Stigliani per i 450 anni dalla nascita (1573-2023)”, organizzato a Matera dalla professoressa Cristina Acucella, a cui va il mio sentito ringraziamento per l’invito.