“Donne nella nebbia” di Laura Acero: racconti dal margine
Avere tredici anni e conoscere il silenzio del páramo. Tredici anni e una figlia in arrivo. Partorire in mezzo ai monti, in una grotta che rivedrai solo il giorno in cui, con gli altri tuoi figli, correrai a rifugiarti lì per scappare dalle bombe. Capire come si fa a rimanere anche quando la violenza flagella la terra dove hai creato una famiglia e ormai non resta più niente e nessuno per cui vivere.
Nel primo romanzo di Laura Acero, Donne nella nebbia (traduzione di Serena Bianchi, pubblicato in Italia da Ventanas Edizioni), l’autrice ci fa immergere nel territorio colombiano di Sumapaz e nell’ambiente cittadino della capitale – due luoghi che, seppur diversi, si incontrano nei personaggi femminili le cui voci e le cui parole sono protagoniste della storia. Nel libro infatti, attraverso la partecipazione a un laboratorio di scrittura, alcune donne del luogo si confrontano tra di loro e con la loro giovane insegnante di Bogotá, mescolando sfondi di vita differenti e ripensando la condizione femminile come spazio di conflitto costruttivo. Proprio per questo, sono molte le tematiche affrontate dalle prospettive narranti: la maternità, la ricerca di autonomia, le aspettative sociali, la violenza e la solidarietà – tutti aspetti in cui ciascuna, in un modo o nell’altro, si riconosce e che rielabora a seconda della propria vicenda personale.
Attraverso una scrittura cruda e schietta, forse talvolta anche succinta, che incarna la difficoltà di esprimere che cosa si sta attraversando, Acero lascia parlare queste donne che vivono – come dice il titolo stesso – nella nebbia, simbolo delle loro difficoltà passate, degli ostacoli e dei ricordi che non riescono a lasciar andare. Ognuna delle partecipanti mette sul tavolo il suo vissuto e cerca di dare una forma ai propri non detti: c’è chi è divisa tra l’essere madre e il desiderio di realizzazione personale; chi ha subito violenze mai denunciate; chi ha perso i propri cari a causa della guerra; chi ha abbandonato la vita precedente cercando nel páramo una forma di riscatto.
«All’improvviso senti che appartieni a quel luogo, che provieni da lì, quel luogo ti appartiene». Un posto che, seppur affondi le proprie radici nella guerra e nel mistero della violenza, assume un nuovo significato attraverso un racconto di comunità. Nel romanzo, infatti, avviene una sorta di evoluzione, nonostante la sua brevità: le donne, da che erano schive e scettiche riguardo alle pratiche di scrittura, pian piano si lasciano andare e arrivano a una condivisione che riesce a tirare fuori la sofferenza e in qualche modo a esorcizzarla.
Sono ricordi, per la maggior parte, dolorosi. Eppure solo al quarto incontro ho sentito parlare dei compagni morti, dei figli e dei fratelli unitisi alla guerriglia e mai più tornati, di coloro che l’Esercito aveva fatto sparire. E nessuna ne parlava come se fosse accaduto a lei, non c’era storia che partisse dalle emozioni.
La potenza di questo libro sta nella sua lentezza, nel suo voler rispettare i tempi di apertura di ogni personaggio, ponendo la giusta attenzione sulle vicende, sul carattere e, soprattutto, sul dolore. Queste donne condividono una visione: «La mia vita è così: scampoli di ciò che devo fare, e scampoli, miei o di altri, che in qualche modo metto insieme», anche se all’inizio non sembra. Pagina dopo pagina, quello che entra in gioco è la fiducia, il coraggio di riconoscere nell’altra qualcosa di sé e di vederlo finalmente come una sorta di ingiustizia, un qualcosa su cui prendere il controllo e chiedere rivalsa. Tutto questo avviene attraverso il mezzo della scrittura e del linguaggio, che – almeno io credo – rappresenta una bellissima metafora del riappropriarsi di ciò che si è ri-narrandolo, o addirittura in alcuni casi narrandolo per la prima volta.
Le vite di queste donne sono state tutte indelebilmente segnate dal conflitto armato colombiano, che ha lasciato, a loro come agli altri, dei traumi di matrice collettiva molto pesanti: famiglie distrutte, storie di sfruttamento, figli scomparsi. Laura Acero vuole raccontare qui le vicende di chi la guerra è stata costretta a subirla sul proprio corpo femminile con le lacrime, il sudore e le ferite che lascia. Soprattutto in questo senso, le parole usate dall’autrice sono sempre molto evocative ma mai grafiche: il dolore traspare, si intuisce e rimbomba anche nei silenzi e negli spazi vuoti, con una capacità comunicativa molto toccante rispetto alla storia del luogo e di chi ne ha fatto e ne fa tuttora parte. Le protagoniste sono come il páramo in cui risiedono: dure, isolate, segnate da tutte queste perdite. Eppure, la loro capacità di resistere e ricominciare è ciò che continua a far vivere il luogo e a dargli luce.
Chiedo alle donne su quali parti del corpo metterebbero le piante incontrate durante la passeggiata, se qualcuna potrebbe servire a curare un organo specifico, dove la piazzerebbero. Per spiegare l’esercizio comincio io, disegnando sui polmoni un rovo di more, la pianta che, l’ho appena ricordato, mia madre mi dava per la tosse. […] Un páramo dal profilo di donna prende forma.
Proprio questo corpo, che avrà poi dei capelli rosso fuoco, diventa il simbolo di ciò che queste donne sono: la potenza della rivoluzione, la trasformazione dall’oscurità più buia al germoglio più verde, l’occasione di dare la propria versione e ri-costruire un territorio devastato. La ricerca della libertà è, perciò, uno dei punti focali del romanzo: sulla loro pelle, le protagoniste hanno faticosamente imparato che l’autonomia arriva sempre con un prezzo alto da pagare – specialmente perché possiedono un corpo femminile – ma ognuna ha il potenziale per ricominciare ancora e ancora, trovando solidarietà in mezzo alle altre.