Lelio Camassa
pubblicato 20 ore fa in Letteratura

Le storia natalizie di Jacopo da Varazze

Le storia natalizie di Jacopo da Varazze

Fra i testi medievali più noti del Due-Trecento c’è uno scrigno di meraviglie inestimabili: la Legenda Aurea del domenicano Jacopo da Varazze, poderosa raccolta in latino di vite di santi e di descrizioni delle festività cristiane, scritta fra 1252 e 1265. I circa millequattrocento manoscritti latini e volgari solo del Medioevo, senza contare le edizioni a stampa, testimoniano la sua influenza, paragonabile soltanto a quella della Bibbia, tanto straripante da innervare la società, la cultura, l’arte. Fra le tante storie edificanti, Jacopo ne racconta almeno sette legate al periodo natalizio. Alcune colpiscono ancora oggi per il loro candore, per la dovizia di dettagli e per la potenza delle immagini: sono le vite di san Nicola, di santo Stefano e di san Silvestro.

San Nicola, figura che nel corso del tempo è mutata fino a divenire l’attuale Babbo Natale, vive nel IV secolo. È il santo che, più di ogni altro, si distingue per la sua particolare predilezione per i bambini e per i figli in generale, che aiuta in molte occasioni (alcune raffigurate nel 1332 da Ambrogio Lorenzetti nel ciclo pittorico dedicato al santo). La sua rappresentazione sicuramente è memore di quel che Cristo fa nei Vangeli di Marco 10, 13-16 e Matteo 19, 13-15, quando esclama «Lasciate che i bambini vengano a me» per benedirli. Jacopo ricorda che il giovane Nicola, nato da famiglia ricca, non amando i beni avuti in eredità trova un modo caritatevole di impiegarli. Un suo vicino di casa, che ha tre figliolette, vuole indurle a prostituirsi e vivere dei loro guadagni. Nicola nottetempo lascia un fagotto con dell’oro in casa dell’uomo, che ne fa la dote per la primogenita; lieto del successo, Nicola ripete il gesto anche per la seconda fanciulla. Il padre, gioioso ma incuriosito di sapere chi sia il misterioso benefattore, si apposta per qualche notte nell’attesa del dono per la terza figlia; quando Nicola lancia il suo pacchetto, l’uomo lo prega di farsi riconoscere e vuole baciargli i piedi, ma Nicola umilmente rifiuta l’omaggio e lo obbliga a tacere sull’accaduto. Diventato vescovo di Myra (300) e restato in carica fino alla morte (343), Nicola compie tanti altri miracoli sia in vita sia post mortem, giovando soprattutto ai bimbi e ai giovinetti. E così, quando il diavolo vestito da mendicante va a bussare alla porta di casa di un nobiluomo e questi manda suo figlio a fargli la carità, il demonio strangola il ragazzo; solo in seguito alle preghiere del padre, devoto a san Nicola, il santo fa resuscitare il morto. O, ancora, quando un ricco uomo grazie a san Nicola ha avuto un figlio che, però, viene fatto schiavo da un malvagio re: nel giorno della propria festa, il santo provoca un vento irresistibile che scuote la casa del sovrano, solleva per aria il fanciullo e lo riconduce dal suo devoto papà.

Jacopo, poi, narra con partecipazione un ulteriore miracolo. Un nobile prega a lungo san Nicola perché gli conceda un figlio, facendo voto che avrebbe portato il fanciullo nella chiesa a lui consacrata con un vaso pieno d’oro (l’episodio, forse, è ambientato dopo la traslazione illecita dei resti di Nicola da Myra a Bari, nel 1087). Nato e cresciuto il bimbo, l’uomo si appresta al viaggio e fa fabbricare il vaso d’oro, ma si ingolosisce per la sua bellezza e lo tiene per sé, commissionandone un secondo di pari valore;  tuttavia, durante il viaggio, il figlio con in mano il primo vaso accidentalmente cade in acqua e non riemerge. Il padre giunge lo stesso alla chiesa di san Nicola, dove offre al santo la pur pregiata copia del vaso, che per una misteriosa spinta cade dall’altare. Altre due volte l’uomo tenta di collocare il suo dono ma altrettante precipita al suolo, finché nella chiesa appare il figlio con in mano il primo vaso: il fanciullo racconta che san Nicola lo ha salvato dall’annegamento e che ora è vivo grazie a lui. Il padre, stupefatto e grato, offre a san Nicola entrambi i vasi.

Festeggiato il 26 dicembre, per molti Santo Stefano è il primo martire della storia cristiana. Vissuto all’epoca di Cristo e morto a poco più di trent’anni, Stefano viene eletto diacono dagli apostoli a Gerusalemme e già in vita compie alcuni miracoli, cosa che gli attira le antipatie dei giudei. Questi tentano di eliminarlo con lo stesso stratagemma già usato contro Gesù: incriminandolo per ciò che dice anche mediante alcuni falsi testimoni e, se ciò non bastasse, sottoponendolo a tortura. Stefano, pieno di Spirito Santo che è fonte di sapienza e di eloquenza, riesce a controbattere. I giudei, allora, decidono di trascinarlo fuori da Gerusalemme e di lapidarlo. Sotto i colpi incessanti delle pietre dei suoi aguzzini, Stefano prega il Signore di perdonare loro questa colpa, proprio come Gesù sulla croce. Così, dice Jacopo, il martire si addormenta in nostro Signore ed è bello dire così (pulchre dictum est), perché in punto di morte ama i suoi nemici e si addormenta nella speranza di risorgere. È il 3 agosto dello stesso anno in cui muore Cristo, ma, aggiunge Jacopo, la Chiesa ha voluto festeggiare santo Stefano il 26 dicembre per riunire a Cristo (che Jacopo ritiene nato il 25) uno dei suoi primi compagni.

Chiudiamo questa piccolo florilegio di storie con san Silvestro, papa nel 314 sotto l’imperatore Costantino il Vincitore e in carica fino alla sua morte, il 31 dicembre 335. Fra gli episodi della sua vita che Jacopo ricorda, uno dei più intensi è quello della piscina di sangue. L’imperatore Costantino, ancora pagano e persecutore dei cristiani, si ammala di una lebbra grave e incurabile. I sacerdoti, anch’essi pagani, gli consigliano turpemente di riempire una grande vasca con il sangue di tremila fanciulli da far sgozzare sul posto, in modo da avere una piscina calda in cui immergersi. Il lamento delle madri dei tremila fanciulli scuote il cuore di Costantino che, impietosito e memore che la dignità dell’Impero romano sorge dalla «pietà», restituisce alle mamme angosciate i bambini ancora vivi, preferisce morire risparmiando la vita a tanti innocenti piuttosto che purificarsi dalla lebbra ma restare insozzato «di tante morti crudeli» (una nuova strage degli Innocenti, dunque, non si è inverata). Nella notte, all’imperatore compaiono in sogno gli apostoli Pietro e Paolo, che gli annunciano che Dio per ricompensarlo vuole che guarisca e gli consigliano di rivolgersi al vescovo Silvestro, nascosto sul monte Soratte, vicino Roma. Rintracciato dagli armigeri dell’imperatore Silvestro si reca da Costantino, lo istruisce sulla fede cristiana e, dopo sette giorni di digiuno, lo battezza. Mirabile a dirsi! L’imperatore, uscito dal fonte battesimale, è risanato e (come prima della battaglia di ponte Milvio) ha una visione di Cristo, che fa venerare a Roma come il vero Dio.

Da quel giorno, il rapporto tra Costantino e Silvestro diventa strettissimo, al punto che l’imperatore chiede alla madre Elena, ebrea per Jacopo, di far venire a Roma i giudei più dotti, affinché si misurino dialetticamente con Silvestro e il suo clero su quale sia la vera fede. Il lungo confronto fra lo schieramento giudaico e quello cristiano è chiosato dal duello fra il dotto ebreo Zambri e Silvestro. Il primo afferma che, solo pronunciare sottovoce il nome di Dio (Yahweh) nell’orecchio di un toro imbizzarrito, lo farebbe morire; e così accade. Ma Silvestro, tutt’altro che impressionato, sostiene fermamente che Zambri abbia evocato un demone anziché Dio, perché Dio (e, con Lui, Cristo) non uccide ma resuscita. Il giudeo replica che egli stesso e tutti i suoi si convertiranno se Silvestro riuscirà a riportare in vita l’animale. Il vescovo, in nome di Gesù, ordina al toro di resuscitare e la bestia ritorna in vita, peraltro senza la sua caratteristica furia: la delegazione ebraica, sbalordita, non può far altro che convertirsi, insieme alla imperatrice Elena.

Soprattutto durante queste feste, sarebbe bello farsi tutt’uno con il fremito che un lettore medievale certamente provava leggendo l’opera di Jacopo. Lasciamo allora che sia l’autore ad augurarci buon Natale, con le parole di san Bernardo riportate a chiusura dell’episodio della Natività: «Il terzo motivo [della nascita di Cristo] è la cura delle nostre malattie. Di un triplice morbo soffre il genere umano: al principio, al mezzo e alla fine, cioè la nascita, la vita e la morte. La nascita era immonda, la vita era perversa, la morte era pericolosa. Venne Cristo e contro questo triplice morbo ha portato un triplice rimedio. Infatti nacque, visse e morì. La sua nascita purificò la nostra. La sua vita ha istruito la nostra. La sua morte ha distrutto la nostra».

Buone feste dal Culturificio.