Valentina D'Ambrosio
pubblicato 7 anni fa in Letteratura

Canto d’amore

Anacreonte, Leopardi, Carducci, gli Europe

Canto d’amore

Se c’è un argomento del quale l’uomo non sembra mai essere pago quello, ne possiamo star certi, è proprio l’amore.
E chi, degli autori vecchi e nuovi, non ne ha cantato?
Il solo pensare di gettarsi in una ricostruzione letteraria del sentimento più celebrato al mondo pare cosa impossibile, più realistico e opportuno sarebbe darsi ad una campionatura che, pur non volendo espungere per alcuna ragione autori di gran calibro, si addentri tra i meandri letterari – e non solo – tentando di cogliere fior da fiore.

Punto di partenza, faro nell’oscurità della lingua, è lo studio etimologico.
La parola amore deriva dal latino ămŏr-amoris e descrive il sentimento d’affetto per qualcuno (Luigi Castiglioni, Scevola Mariotti, Vocabolario della lingua latina, a cura di Piergiorgio Parroni, Loescher Editore, Milano 2007, p. 96), è affine al greco MÀO ossia “desidero” in quanto sarebbe la raffigurazione letterale del desiderio (Ottorino Pianigiani, Vocabolario etimologico della lingua italiana, Società editrice Dante Alighieri di Albrighi, Segati, Roma 1907, p. 51).
Nel tempo, così come ogni cosa, ha mutato abito un numero irripetibile di volte, trasformandosi di pari passo con la società e le sue esigenze.
Esaltato, odiato, letto e riscritto, l’amore ha trovato nella poesia rifugio sicuro, connubio irrinunciabile.
L’ineluttabilità comunicativa del sentimento amoroso che, spesso, per quanto celato, necessita di un mezzo attraverso il quale venir fuori, ha portato autori di tutte le epoche e le scuole di pensiero a parlare attraverso il verso.
Si fa poesia, di ogni schiatta e per ogni gusto, su una mole indefinita di argomenti, ma l’amore rimane sempre in cima alla lista.
Ben lo sa quella in lingua greca, che è maestra dolcissima e dolorosa per la produzione che è destinata a sorgere, sino a raggiungerci.

Nome irrinunciabile, quando si fa cenno all’amore esaltato dalla poesia lirica, è quello di Anacreonte.
L’autore di Teo, città dell’Asia minore e culla anche di Protagora e Antimaco, è tra i più celebrati dalla poesia lirica, insieme al duo formato da Saffo e Alceo.
La poesia anacreontica ha il gran pregio della fruibilità, ciò non vuol significare banalità o superficialità, bensì un senso leggero ed edonistico della vita e dei sentimenti. Anacreonte ha ciò che oggi, in sostanza, definiremmo “leggerezza letteraria”. Le sue composizioni sarebbero i nostri “best seller”, con le dovute accortezze critiche del caso.
I poliedrici amori vissuti e immaginati gli hanno permesso non solo di tenere sempiterna la Musa ma anche di produrre un verso mai statico, anzi, cangiante e voluttuoso. Anacreonte canta l’amore per Smerdi, per Cleobolo, per Batillo, rallegrando i cuori e le mense (Bonaventura Viani, Le odi di Anacreonte e Saffo, Tip. Bossi e Bassoni, Spoleto 1858, p. 7).
Nella XXVIII Ode, dedicata ad un’anonima amante, il poeta di Teo ne descrive con toni pittorici la bellezza.
La fanciulla amata ha le chiome scure e molli, le guance rosee e le lunghe ciglia sulle quali il verso indugia: erano unite oppure separate? Anacreonte lascia l’interrogativo aperto e ci fornisce, allo stesso tempo, la possibilità di discutere su come diversi siano i canoni di bellezza odierni.
Come considereremmo, oggi, una fanciulla dalle ciglia unite? Eppure, a ben pensarci, nell’antico mondo greco erano un gran simbolo di bellezza.

L’ode anacreontica, chiunque ne sia il soggetto, ha influenzato anche la poesia catulliana, considerata sua erede nella latinitas; la versatilità che la caratterizza la rende antenata del canto d’amore che si è conservato, sebbene con i dovuti cambiamenti, sino ad oggi.
In sintesi: il componimento anacreontico entra a far parte del ramo interessato all’amore deteologizzato che non disdegna sfumature sofferenti, passionali, umane. Un antenato illustre che ha trovato compimento, sebbene mai definitivo, nell’opera poetica carducciana. L’autore di Valdiscastello, Nobel per la letteratura nel 1906, è tra i grandi cultori della lirica barbara, tradizionalmente accostata alla produzione greca.
Nella raccolta Rime e Ritmi (1899), Giosuè Carducci non manca di passare in rassegna anche il tema amoroso. Lungi dal formalismo, il canto carducciano parla sì dell’amore, ma di un sentimento che non è soltanto nitida esaltazione dell’oggetto del desiderio, bensì struggimento e morte.

L’amore inteso da Carducci è, infatti, “di lontano”, qualcosa di tanto desiderato quanto irraggiungibile, un fantasma sfuggente, lacrimato e, solo sul finir della vita, toccato con mano. La base scelta è una delle più care dalla letteratura: Jaufré Rudel, principe di Blaia e tragicamente innamorato della contessa tripolitana Melisenda.
Attorno alla figura dell’infelice si sono espresse più voci: non sono mancati i contributi di Edmond Rostand, padre del noto Cyrano de Bergerac, di Heinrich Heine e di tanti altri che, in modi diversi, hanno letto e interpretato la figura del principe di Blaia. Carducci ne fa un ritratto attraversato da un sentimento passionale e commosso, lacrimoso eppure appagato, sebbene soltanto in punto di morte, dal compimento del connubio amoroso.
Rudel, in preda alla malattia che lo sta consumando, giunge sulle spiagge di Tripoli. Lo sguardo febbricitante cerca il castello, cerca l’amata che non ha saputo di quel sentimento, covato gelosamente dentro di sé, cantato nel segreto dell’animo e mai rivelato prima.

Io vengo messaggio d’amore,
Io vengo messaggio di morte:
Messaggio vengo io del signore
Di Blaia, Giaufredo Rudel.
Notizie di voi gli fûr porte,
V’amò vi cantò non veduta:
Ei viene e si muor. Vi saluta.
Signora il poeta fedel.

Queste le tristi parole riportate dal fedele scudiero Bertrando.
Un messaggio d’amore e morte, un binomio e un ossimoro celebrato dal canto d’ogni epoca, che ci trascina indietro nel tempo, avvicinandoci ad un altro innamorato deluso, genio poetico e monumento letterario: Giacomo Leopardi.

Che un contatto tra Carducci ed il Recanatese sia esistito non v’è ombra di dubbio: il primo se ne occupò, sebbene in un primo momento lo avesse ritenuto non proprio congeniale alla sua indole (Mario Scotti, Tra poesia e cultura, Mucchi editore, Modena 2000, p. 534).
Eppure, quei due “fratelli a un tempo stesso, Amore e Morte” non solo sono inseparabili nella produzione leopardiana ma, nel loro tornare ciclicamente, non hanno mancato di colpire neppure Carducci.
Laddove l’autore di Valdicastello sceglie un medievale “amor di lontano” come materia del suo canto, Leopardi aveva già ampiamente parlato di qualcosa di simile nel suo Consalvo d’ispirazione seicentesca.

Il componimento, afferente al Ciclo di Aspasia (1834) insieme alle poesie Il pensiero dominante, Amore e Morte, A se stesso e la stessa Aspasia, narra del Gran Capitano Consalvo di Cordova, personaggio scelto dal Recanatese per interpretare se stesso nella trasposizione poetica di un dramma d’amore non corrisposto con la nobildonna Fanny Targioni Tozzetti (Domenico Defilippis, Il Consalvo di Giacomo Leopardi in Text – Interpretation – Vergleich. Festschrift für Manfred Lentzen zum 65. Geburtstag a cura di Joachim Leeker, Erich Schmidt Verlag GmbH & Co, Berlino 2005, p. 185).

Tra commozione e rimpianto, Consalvo spira tra le braccia dell’amata Elvira come un novello Jaufré Rudel, e solo in morte ne vince la ritrosia ottenendo un bacio che sa già di dipartita.
Elaborato che ha portato alle lacrime critici illustri come Francesco De Sanctis (Emerico Giachery, Motivo e parola, Guida editori, Napoli 1990, p. 26), Consalvo incarna perfettamente il canto d’amore inteso da Leopardi: crudo, struggente, appassionato.
Nella produzione amorosa leopardiana, vasta e variegata, ben si potrebbe rintracciare la radice di ciò che la musica pop, soprattutto negli anni Ottanta, ha definito ballad.
Il termine è, invero, molto più antico di quanto si potrebbe immaginare: risale al Medioevo e descrive la “canzone da ballo”, tuttavia perde ben presto il significato originario per far spazio a nuove accezioni.
Già nel XIX secolo descriveva il componimento di argomento romantico oppure orrido, nel XX secolo finisce addirittura con il comprendere tutte le canzoni dominate dal tema sentimentale (John Tasker Howard, George Kent Bellows, Breve storia della musica in America, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 1963, p. 142).

Negli anni Ottanta la Hit Parade è cavalcata dagli Europe, band di origini svedesi, formatasi nel 1978 nei sobborghi di Stoccolma. Il successo, arrivato con l’album The Final Countdown (1986), è dovuto alle sonorità melodiche e soprattutto all’argomento trattato.
Gli Europe cantano d’amore in maniera, ovviamente, molto diversa rispetto agli autori precedentemente citati.

Lungi dal voler apparire accostamento “sacrilego” o “faceto”, la ballad Carrie è esempio pop di come dovrebbe essere un successore di quell’antico “canto d’amore” a cui i poeti laureati erano tanto affezionati.
Se ci si accostasse con animo critico e non prevenuto si finirebbe con lo scoprire, felicemente, che ha tutti gli ingredienti che servono al caso: il nome di una donna che viene lungamente invocato, una storia di base che fa innamorare ma, soprattutto, piangere.
Proprio come le migliore tradizione pretende.
Che oggi il cantare d’amore, dunque, sia da considerarsi “in via d’estinzione”, soppiantato da temi più appetibili e meno struggenti, pare proprio lontano all’orizzonte. Certo, le produzioni leopardiane e carducciane erano e sono insostituibili, ma qui non si parla di capacità di rigenerarsi quanto, tutt’al più, di voglia di mantenere vivo e vegeto il canto più antico del mondo che, nonostante i gravosi secoli sulle spalle, sembra avere ancora la freschezza del un garzoncello scherzoso.

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