“Il duende spreme limoni” o il ruolo della traduzione nell’opera di Spicer, Beckett e Calvino
Esce in Italia per la prima volta la traduzione integrale del primo libro di Jack Spicer, datato 1957: After Lorca. Con un’introduzione di Federico Garcìa Lorca, a cura di Andrea Franzoni e Fabio Orecchini, traduzione e note di Andrea Franzoni, postfazione di Peter Gizzi, edizioni Gwynplaine et NieWiem.
After Lorca è un libro caleidoscopico, labirintico, smaccatamente post-moderno, eppure mai lambiccato o stucchevole; è un libro che riflette sulla natura stessa della poesia, dell’atto creativo, della sua paternità.
La raccolta poetica è infatti celebre per essere un testo che parla con l’aldilà, se non dall’aldilà, dato che Spicer chiama direttamente il defunto Garcìa Lorca – evidentemente irritato per l’incomodo – a scrivergli la prefazione. Il dialogo prosegue per tutto il libro, che è un tessuto ricamato di testi poetici inediti, di traduzioni di poesie di Lorca, di riscritture di poesie lorchiane, di dediche, di pagine di diario, di lettere accorate. È un libro proteiforme, sfuggente, in cui tutto è il contrario di quello che è, e ogni forma si liquefa tra le mani.
Persino definire chi fosse Jack Spicer non è un lavoro semplice e, a tratteggiare una biografia, ne esce un ritratto assurdo e picaresco: nasce a Los Angeles il 30 gennaio 1925, tra i tanti lavori fa l’investigatore e la comparsa, stringe amicizia con il futuro segretario di stato Warren Christopher, si occupa di linguistica all’Università di Barkeley ma rinuncia alla carriera accademica in sprezzo al maccartismo vigente, entra nel cenacolo della Berkeley Renaissance dove istruisce giovani poeti sulla “queer genealogy” e muore di alcolismo il 17 agosto 1965 a San Francisco.
Forse solo le parole di Paul Vangelisti – poeta e traduttore statunitense –, pronunciate durante una presentazione della nuova traduzione italiana, riescono a dare un’idea di chi fosse davvero Jack Spicer e di quale fosse il clima intellettuale della west-coast durante gli anni ’50:
Ginsberg, la beat generation erano pop, e noi avevamo già Janis Joplin per quello. Spicer era un coterie author – come si dice? di nicchia? – Sì, noi volevamo leggere questo
Ciò che fa di After Lorca un testo interessante è proprio il carattere inafferrabile del libro, quasi barocco nel suo continuo riflettersi di specchi, in cui ogni parola si apre a infinite possibili riletture.
Spicer, credendosi Lorca, facendosi Lorca, non traduce il gesto poetico, bensì l’adamitico atto poetico. Guardando alla sua estrosa libertà nel tradurre, l’atteggiamento del poeta californiano potrebbe sì essere detto ultra-cibliste, eppure questa definizione non renderebbe appieno la sua reale volontà di farsi poeta tramite la traduzione, cioè colui che fa il testo poetico. Per Spicer, infatti, non è soltanto questione di piegare “la langue-cible per farci entrare, a forza, degli elementi della langue-source” (Ladmiral), ma di farsi autore del testo che sta traducendo.
Una poesia veramente perfetta […] potrebbe essere perfettamente tradotta da una persona che non conosce una parola della lingua in cui è stata scritta. Una poesia veramente perfetta ha un vocabolario infinitamente piccolo
Questo scrive Spicer nel suo fittizio epistolario a Lorca, come a spiegare che la poesia sta altrove, la poesia non è davvero nelle parole, né della lingua di partenza né della lingua di arrivo. Di più, Spicer sembrerebbe dire che le parole sono solo strumenti, sono gli utensili dell’artigiano, e che la poiesis non può che nascere dalla mimesis.
Caro Lorca,
Vorrei poter fare poesie di oggetti reali. Che il limone fosse un limone che il lettore possa aprire o spremere o assaggiare – un limone reale, come un giornale in un collage è un giornale reale. Vorrei che la luna nelle mie poesie fosse una luna reale, che all’improvviso possa essere coperta da una nuvola che non ha niente a che fare con la poesia – una luna completamente indipendente dalle immagini. L’immaginazione dipinge il reale. Mi piacerebbe indicare il reale, rivelarlo, per fare una poesia che non abbia suoni al suo interno se non l’indicare di un dito.
È prodigioso mettere a confronto questa lettera spiceriana con le qui presenti citazioni beckettiane, tratte dal suo diario:
My own language appears to me like a veil that must be torn apart in order to get at the things (or the Nothingness) behind it.
The uniform, horizontal writing, flowing without accidence, of the man with a style, never gives you the margarita. But the writing of, say, Racine or Malherbe, perpendicular, diamanté, is pitted, is it not, and sprigged with sparkles; the flints and pebbles are there, no end of humble tags and commonplaces. They have no style, they write without style, do they not, they give you the phrase, the sparkle, the precious margaret. Perhaps only the French can do it. Perhaps only the French language can give you the thing you want.
Nei due testi si nota la stessa insoddisfazione per la Lingua, arnese incapace di giungere all’essenza delle cose, di riprodurle, di dare loro forma. Si nota la stessa dissociazione dal mondo, che è come irraggiungibile, imperscrutabile.
D’altronde, i postulati da cui Beckett parte non sono molto diversi da quelli di Spicer: Samuel Beckett, irlandese di nascita ma parigino per adozione, può essere infatti considerato a tutti gli effetti uno scrittore bilingue, poiché scrisse tanto in francese quanto in inglese, ma soprattutto perché fu autore e traduttore dei suoi stessi testi.
Se da una parte la scelta del francese è dal premio Nobel espressamente e ripetutamente dichiarata come un voto di povertà, per scarnificare la propria lingua e ottenere uno stile minimalista capace di “représenter un monde mort en utilisant un language sans vie”, dall’altra parte essa sta alla base di una vera e propria poetica del bilinguismo.
Brian Fitch, che ha consacrato un’opera a questo bilinguismo beckettiano, è infatti giunto alla conclusione che queste auto-traduzioni non possano essere considerate come tali tout court, poiché assai raramente esse vengono realizzate a partire dalla prima versione definita. Piuttosto, Beckett traduce a partire dalle sue carte, dagli appunti, dai manoscritti sparsi.
Ecco che, dunque, anche per Beckett, come per Spicer, la traduzione non è mai soltanto un portare da una parte a un’altra (trans-ferre) un testo, ma è scrivere un nuovo testo originale.
L’esistenza di due testi quasi identici, entrambi da considerarsi bella copia, scritti dallo stesso autore-traduttore rimette in questione la nozione stessa di opera. Quale versione è da considerarsi superiore? Quella che è stata conclusa per prima o quella che ha subito un’elaborazione maggiore? Si può davvero gerarchizzare questi due testi? Oppure si deve accettare l’idea che l’opera sia indefinibile, non finita, che risieda in due libri diversi contemporaneamente?
Il critico Bruno Clément arriva appunto alla conclusione che il testo definitivo, per Beckett, non stia da nessun parte, e che proprio tramite il bilinguismo, con la traduzione, egli crei un’opera che risiede altrove.
l’œuvre ne peut s’identifier ni à une version ni à l’autre […] elle est seulement ailleurs, chacun des deux textes qu’on a la possibilité de lire et d’interroger constituant une sorte d’ébauche, d’incarnation imparfaite d’une œuvre idéale que toute entreprise de matérialiser corromprait nécessairement
Non siamo molto distanti dalle parole di Spicer, scritte giusto quattro anni dopo la trilogia beckettiana del ’51-’53:
Questi paragrafi potrebbero essere tradotti, trasformati da una catena di cinquanta poeti in cinquanta lingue, e ancora rimarrebbero provvisori, infedeli, incapaci di produrre la sostanza di una singola immagine.
Dove risieda la poesia Beckett però non lo rivela, o non lo sa, mentre Spicer dà ancora una volta prova del suo folle genio facendosi portavoce della scanzonata teoria che vorrebbe le parole giungere da un fantomatico altrove, dettate da un trasmettitore, o dagli alieni.
Al di là di una prima superficiale lettura, l’idea dello scrittore californiano affonda le radici proprio in seno alla poesia lorchiana. In particolare, essa fa riferimento al testo Gioco e teoria del duende, in cui l’autore spagnolo espone una concezione quasi esoterica dell’ispirazione poetica. Per Lorca, infatti, la poesia nasce da una lotta con uno spirito tellurico, col duende appunto, alla fine della quale, come nella parabola di Giacobbe e l’angelo, si giunge una rivelazione lirica.
Il duende si compiace dei bordi del pozzo in aperta lotta con il creatore. Angelo e musa scappano con violino o ritmo, e il duende ferisce, e nella guarigione di questa ferita, che mai rimargina, risiede l’insolito, l’inventato dell’opera umana
Eppure, non pare neanche così assurda l’idea che possano essere gli alieni a fare dei poeti dei ricettori di messaggi cosmici se si pensa che persino quel genio della letteratura italiana che è Calvino propose la medesima strampalata teoria nel cuore del suo capolavoro Se una notte d’inverno un viaggiatore.
– Trasmessa come?
– Per via mentale. Lui non dovrebbe accorgersene nemmeno. Crederebbe di star scrivendo a suo talento; invece il messaggio che viene dallo spazio su onde captate dal suo cervello s’infiltrerebbe in quello che lui scrive
A questo punto, non dovrebbe neanche più sembrare assurdo credere quell’Ermes Marana di cui scrive Calvino possa essere lo stesso Spicer, in attesa di un messaggio alieno. Non dovrebbe neppure sembrare così implausibile credere che Spicer e Beckett possano essere i capi di quell’immensa organizzazione segreta che nell’opera di Calvino falsifica i libri d’autore e porta il Lettore e la Lettrice a scontrarsi sempre con un incipit diverso, con un libro apocrifo, falsificato, altro.
D’altronde, come scrive Spicer, la letteratura, la tradizione, non è nient’altro che
generazioni di poeti differenti in paesi differenti, che raccontano pazientemente la stessa storia, che scrivono la stessa poesia, guadagnando o perdendo qualcosa ad ogni trasformazione