Dolore minimo
Il dono dell'indovino Tiresia
Quando nacqui mia madre
mi fece un dono antichissimo.
Il dono dell’indovino Tiresia:
mutare sesso una volta nella vita
Un romanzo in versi che non sembra raccontare un viaggio di transizione, ma una nuova nascita. È il racconto di un dolore minimo che giace in ogni lettore, concepito come mezzo per sondare le ferite, avere cura e tenerezza, comprensione per il dolore altrui. Un dolore minimo che va al di là della transizione, vale per tutti, riguarda tutti.
In questa voce giovane non sembrano percepirsi tuttavia toni di rivendicazione; piuttosto, un invito a conoscere, ad ascoltare prima ancora che comprendere. È una voce saggia per la sua età che sembra tentare di essere una voce piena, in grado di dare consistenza a questa invisibilità esortando il lettore a sentire la complessità di un dolore la cui conoscenza ci è stata negata, perché è il dolore di chi non esiste, di chi non sembra avere il diritto di professarsi reale.
Ci caliamo in un complesso discorso incentrato sulla questione identitaria che non può rimanere a lungo una questione individuale. Attraverso i suoi versi Vivinetto mette in luce aspetti delicati e complessi, come il ruolo della famiglia nella transizione, perché non si tratta di un’alterazione del visibile, almeno non solo, è soprattutto una seconda nascita.
Il tema della maternità emerge con forza e a ogni dichiarazione identitaria la poetessa sembra rinascere come madre di sé stessa, più dura e più consapevole, forgiata dalle sue stesse mani.
Ma allo stesso tempo ogni volta che ritorna il passato, torna sotto i toni del lutto. Non c’è rabbia, non c’è risentimento nei confronti di chi non si è riconosciuto, si percepisce solo l’accettazione alla quale è necessario soggiacere quando muore qualcuno.
Capita di nascere in un’aula di tribunale dunque e la figura paterna allora è un giudice che ha la facoltà di decidere se mettere al mondo una nuova identità. Un’identità diversa da tutte le altre perché volitiva, rivendica il suo posto nel mondo e non è figlia della coincidenza ma della decisione. Perché chi si fa madre di sé stessa non ha la facoltà di spiegarsi attraverso la naturalezza e sente l’esigenza di giustificarsi al mondo.
Riscoprirsi cambiando approccio alla quotidianità, alle cose semplici che danno la giusta misura dello scarto, della differenza.
È commovente il rapporto con il passato e con il suo nome. Dare il nome a qualcosa, a qualcuno, significa legittimarlo a esistere, dargli spazio nella dimensione del reale, del condiviso.
L’accettazione risiede nella forza della ripetizione, nella nominazione reiterata. Ogni volta che una voce nomina, ripete e attraverso la ripetizione si misura il riconoscimento.
Non si tratta di definizione, perché definirsi significa in qualche modo creare dei confini, porre dei limiti entro i quali decidere una volta per tutte se stare o non stare. Nominare è differente, è acquisire legittimazione, perché il ricordo a perifrasi ed eufemismi sembra prendere forma quando la paura di pronunciare diventa troppo grande, ma non sussiste di fronte alla consapevolezza, in qualche misura all’accettazione.
Versi che raccontano la parzialità, l’intimità di un rapporto che non può essere vissuto fino in fondo da soli, ma deve avere la forza continua di confrontarsi con il mondo esterno, controllare quell’impulso a chiedere scusa, a trovare un modo per giustificare continuamente la sua stessa esistenza.
Dividersi da sé stessi crea una frammentazione, una parzialità sembra dover essere colmata continuamente, un po’ alla volta. Ma forse è questo che Vivinetto vuole dirci con il titolo, questa parzialità è forse condivisa e dovremmo forse ragionare con più compiutezza sul fatto che non siamo affatto compiuti come pensavamo.
È una voce estremamente consapevole che sembra comprendere davvero quanto per uscire da questa marginalizzazione sia necessario far comprendere prima di tutto che non esiste questa irriducibile differenza che vorrebbero continuasse a dividerci.