No hay banda. L’illusione e l’abisso in “Mulholland drive” di David Lynch
Una serie di silhouette scontornate dallo sfondo e sagome nere che danzano in coppia sulle note di Benny Goodman; un letto sfatto che la macchina da presa risale fino al cuscino; l’indicazione stradale Mulholland Dr che emerge da una dissolvenza e l’incidente che dà avvio alla narrazione. Questo l’inizio della pellicola del 2001 scritta e diretta da David Lynch, quel provocatorio ed efficace deragliamento onirico (Danese, «Il Giorno», 2002) che sovrappone costantemente, fin dalla prima inquadratura, i piani di sogno, illusione e realtà, coinvolgendo profondamente lo spettatore (tanto emotivamente quanto sensorialmente) in un gioco tortuoso e perturbante.
Una donna (Laura Elena Harring), sopravvissuta a un incidente stradale dopo il quale ha perso la memoria, si rifugia nella casa di Los Angeles in cui la zia dell’ingenua Betty (Naomi Watts) le ha permesso di soggiornare per consentirle di iniziare la sua carriera di attrice. Cercando di aiutare la donna misteriosa a indagare sul suo passato, Betty trascinerà lo spettatore in un vortice di eventi nebulosi e spettrali, che si chiariranno (o, meglio, suggeriranno il loro senso) soltanto nell’ultimo terzo del film, quando la realtà confesserà l’inconsistenza dei suoi confini e sarà svelata l’illusione.
Da qui in avanti l’articolo conterrà riferimenti precisi alla trama che potrebbero, per chi non avesse ancora visto Mulholland Drive, compromettere la godibilità della pellicola e allo stesso tempo risultare poco comprensibili. Se appartenete a questa categoria di lettori non esitate oltre e recuperate al più presto il dvd di questo
puzzle noir (…) che mette in scena paure primarie giocando con i meccanismi del desiderio e della memoria. (…) Quasi una summa del cinema di Lynch, ma anche un passo in avanti: ben equilibrato tra incubo e farsa, sconcertante eppure sempre coinvolgente pure quando sfiora la fumisteria (Mereghetti);
insomma, un’opera di grande valore, quel film “di nicchia” che sa piacere a tutti, il prodotto perfetto per chi vuole approcciarsi per la prima volta alla filmografia dell’autore.
Di Mulholland Drive molto è stato detto e moltissimo è stato scritto. Addentrarsi nell’interpretazione di un film di Lynch è un’impresa ardua e affascinante, è tentare di riavvolgere il filo in un labirinto di percezioni, senza l’ausilio di riferimenti spaziali e temporali ben definiti. Cerchiamo innanzitutto di mettere un po’ di ordine nella trama, concedendoci qualche semplificazione concettuale indispensabile in questa sede ai fini della chiarezza del discorso. Possiamo distinguere all’interno del racconto tre diversi piani che si susseguono e si intersecano: il piano del sogno, quello dell’illusione e quello della realtà (concetto quest’ ultimo che, in Lynch, ha comunque un valore relativo). Tutta la prima parte della pellicola (circa 2/3 della durata complessiva) si snoda nel piano del sogno e a sognare è Diane (nel sogno Betty), tormentata dai sensi di colpa per aver commissionato l’omicidio della sua ex amante, Camilla. Al risveglio di Diane veniamo catapultati nel piano della realtà (ultimo terzo del film), che è però fumoso al pari e forse più di quello del sogno, tempestato di flashback e visioni oniriche, grottesco e surreale; a questo punto allo spettatore attento è concesso di ricostruire il puzzle e scorgere tra le righe il terzo piano, quello dell’illusione, che si snoda retrospettivamente fino alla prima inquadratura del film, a suggerirci come il vero incubo sia, in effetti, la realtà. Il ponte tra le due dimensioni (onirica e fattuale) è rappresentato dall’apertura della scatola blu, forse una metafora dell’oscura e abissale profondità del subconscio.
A questo proposito, prima di soffermarci sull’ enigmatica sequenza del Club Silencio, mettiamo in evidenza come nella porzione di pellicola dedicata al sogno, per così dire, “ottimistico” di Diane, ci siano continue intromissioni del subconscio tormentato della ragazza, che afferrando improvvisamente le redini fa deragliare più volte la carrozza dell’idillio e rende la scena oscura e inquietante, con incursioni più o meno prolungate, fino a che il risveglio non eleggerà il subconscio a statuto di realtà. Sarebbe superfluo cercare di esplicitare e analizzare tutte le trasposizioni operate dalla mente di Diane (più piacevole è ricercarle con una seconda o una terza visione): ci basti sapere che ciò che Lynch mette in scena è una splendida danza tra simbolismo e realtà, giocando abilmente con i processi onirici (associativi, metaforici e simbolici) di cui tutti noi abbiamo fatto esperienza: il sogno non ragiona, non segue le logiche del pensiero, bensì trasfigura e altera. L’uomo dietro a Winkie’s, il produttore che sputa il caffè, i due anziani, la chiave blu… sono anormalità (saldamente legate a ricordi e sensazioni dal mondo reale), astrazioni del subconscio di Diane, a suggerirci che più che un film su un sogno, Mulholland Drive è un film sul processo onirico in sé e sulla sua logica (illogica).
Arriviamo così a quello che è forse il concetto centrale del film, il perno su cui ruotano entrambi i mondi rappresentati dal regista: l’illusione. Lynch ci mostra la vera potenza dell’illusione: non (sol)tanto venire ingannati, ma credere all’inganno (ovvero, cedervi emotivamente) anche dopo essere stati avvisati che saremmo stati ingannati. Questo è Lynch e questo è il Cinema. Sul palco del Club Silencio il mago parla chiaro:
No hay banda. There is no band. Il n’est pas de orquestra. This is all a tape recording. No hay banda! And yet… we hear the band (…) It is an illusion.
Betty e Rita vengono esplicitamente messe al corrente del fatto che non ci sarà musica dal vivo, del carattere illusorio dello show, eppure, pochi istanti dopo, le protagoniste (e con loro lo spettatore) cadono in pieno nella trappola della manipolazione delle emozioni. La stessa manipolazione cui il regista ci sottopone dall’inizio del film, giocando con la nostra naturale disposizione ad affidarci ai sensi: il montaggio, lo scenario e il sonoro (con le musiche a cura di Angelo Badalamenti), ancor più della trama, ci imprigionano in una dimensione surreale, straniante e caotica, un mondo perturbante popolato da fantasmi.
Il Club Silencio è il luogo del passaggio (non a caso è tappezzato di tendaggi, elementi che in Lynch simboleggiano delle soglie, punti di transizione tra mondi coesistenti): la conclusione dell’esibizione di Rebekah Del Rio costringe Betty (Diane) al confronto diretto con il palesarsi dell’illusione e la realtà irrompe in tutta la sua cruda violenza. Ora la protagonista non può più evitare il faccia a faccia con i suoi fantasmi: in quel preciso istante, compare la scatola blu.
Moltissimo ancora ci sarebbe da dire su Mulholland Drive*.Un film immenso, in grado di impegnare lo spettatore cognitivamente, emotivamente e sensorialmente, straripante di enigmi (e loro soluzioni), calibrato al millimetro sotto la maschera di un finto caos. Come scrisse Ferzetti (2002): c’è del metodo in tanta follia. La pellicola mette magistralmente in scena i meccanismi onirici, parla del luccichio di Hollywood e del marcio che nasconde, cita Hitchcock (Vertigo, 1958, si vedano i numerosi “doppi” del personaggio femminile) e Bergman, snocciola le conseguenze del senso di colpa sulla psiche, parla di morte, parla d’amore. E tutto ciò sfruttando con maestria e originalità ogni possibilità che il linguaggio cinematografico ha da offrire.
Life is very, very complicated,
and so movies should be allowed to be too
David Lynch (The Los Angeles Times, 2003)
Tre (significative) curiosità su Mulholland Drive
La pellicola nasce come episodio pilota di quella che doveva essere una serie tv finanziata dalla ABC, la quale però blocca la produzione preferendo varare al suo posto quella di Wasteland (sitcom del creatore di Dawson Creek, che si rivelerà un insuccesso). Il progetto lynchano viene rilevato da Canal Plus, che paga sette milioni di dollari alla ABC per i diritti e ne stanzia altri due per riprendere la produzione e trasformare il pilot in un lungometraggio.
Nel libretto allegato al dvd (versione americana e inglese) sono riportati dieci indizi del regista per aiutare gli spettatori a risolvere alcuni enigmi del film. Forse semplicemente la maniera di Lynch di ironizzare sull’ansia della critica di dipanare il mistero di Mulholland Drive, i dieci indizi costruiscono comunque uno stimolante percorso “enigmistico” nei meandri della trama.
Il film è dedicato alla memoria di Jennifer Syme, assistente di Lynch per Hotel Room (1993)e compagna di Keanu Reeves, morta nel 2001 in un’incidente stradale alla giovanissima età di 29 anni.
*NOTA: l’interpretazione della pellicola che ho qui brevemente tratteggiato non è chiaramente la sola teorizzata. Consiglio, per chi fosse interessato a un’analisi più esaustiva del film, la lettura di L. Malavasi, Mulholland Drive, Lindau, Torino, 2008