La rivoluzione in lockdown. “Atto di violenza” di Manuel de Pedrolo
«Le rivoluzioni si fanno con la gente per la strada, con disordine. E qui, invece, sembra tutto troppo ordinato». I passanti, infatti, sono così rari che alla polizia sembrano sospetti. I negozi sono chiusi. I mezzi di trasporto vuoti, le fabbriche inattive.
Nella città in cui è ambientato Atto di violenza di Manuel de Pedrolo la rivolta al dittatore Domina obbedisce a un singolare invito: «È molto semplice: restate tutti a casa». Non sappiamo se a diffonderlo sia stato il partito d’opposizione al regime, un gruppo rivoluzionario o un ribelle. Sono parole scritte su un volantino passato di mano in mano fino a coinvolgere un’intera popolazione.
De Pedrolo avvia la narrazione dal primo dei tre giorni di rivolta. All’inizio il lettore è spaesato tanto quanto i personaggi al cospetto di una città fantasma in cui tutto si è fermato.
Ogni capitolo di Atto di violenza è un singolo episodio con i suoi protagonisti. Dalle loro parole emergono storie personali che si intrecciano al presente incerto della rivoluzione. La questione pubblica diventa fulcro di esistenze private oltre a conferire unità di luogo e azione alle vicende narrate. L’attesa di una svolta cresce di pagina in pagina, alimentata da una tensione sempre più grande. Ci si aspetta che qualcosa avvenga, che il regime si rassegni o scateni la vendetta; e invece siamo costretti ad aspettare, anche noi lettori, passivamente.
L’uso del presente rafforza l’impressione di trovarsi complici di ciò che non avviene, spettatori di donne e uomini chiusi nelle loro case.
Ogni capitolo si apre come una finestra su interni diventati all’improvviso luogo di ribellione. La quotidianità, indagata dall’autore in ogni ambito sociale, non è più familiare e rassicurante. Nelle storie di amanti, operai, insegnanti e industriali, de Pedrolo innesta l’atto sovversivo. Stare a casa riflette come una lente convessa l’immagine del regime di Domina e della responsabilità collettiva: «Qui nessuno è favorevole, ma tutti, in un modo o nell’altro, ci collaborano. Siamo proprio delle marionette!». Il problema emerge dai personaggi che lamentano il loro tacito e lungo consenso al regime, coinvolgendo il lettore. Il narratore esterno e il tempo presente ci rendono partecipanti muti dell’azione, dei problemi, della speranza: lettori voyeuristici in attesa che la situazione trovi il suo sbocco più auspicato, la libertà.
Fino alla fine del libro non sappiamo se Domina è caduto o no. Risponderanno le ultimissime pagine in cui de Pedrolo mette il lettore di fronte a un evento che lo costringe a prendere una posizione. Un finale inaspettato, quasi illogico, in cui il potere, così autoritario quando risuona nella retorica, appare ridicolo quanto è infimo chi lo detiene.
Nella società capitalistica dell’alienazione, dove i rapporti umani e l’esistenza stessa si annullano nei meccanismi di domanda e di offerta, non può che scoppiare una rivoluzione senza motti o ideali cui appellarsi. Solo stare a casa, un far nulla che diventa pericoloso. Ma c’è il rischio che senza idee la rivolta stessa, per quanto giusta, possa sgonfiarsi:
I motivi di contestazione non portano da nessuna parte se non contengono qualche fermento creativo, una volontà di costruire sulle rovine, una volontà che si traduca in un programma più o meno preciso.
Stare chiusi in casa, sospendere attività e mestieri, vuol dire interrompere un’intera società. Si ricorre a questa soluzione, forse, quando si perde l’attitudine alla critica: «senza il diritto di critica, le istituzioni si corrompono, gli uomini al potere vengono mitizzati e ogni decisione, persino la più sensata, finisce per diventare arbitraria». Fedele al potere della scrittura, de Pedrolo lascia che uno dei suoi personaggi esponga il nucleo del problema, il linguaggio: «ci siamo abituati a usare le parole in un modo sbagliato. Ne abbiamo abusato talmente tanto che si sono distorte e ormai, spesso, attribuiamo loro un significato opposto a quello originario».
Perché una società senza dibattiti e confronti è una società in cui si vive «lo sgomento di vedersi ridotti a semplici ricettacoli di opinioni a cui non si ha contribuito né si può contribuire».
Siamo tutti complici, anche nella passività e nel disinteresse. Forse il valore più grande di questo romanzo è farci sentire da lettori ciò che siamo da cittadini: coinvolti anche e soprattutto quando osserviamo senza pensieri e reazioni.
In questo anno di pandemia in cui gli spazi domestici sono diventati necessari confini, la scrittura di de Pedrolo pone una domanda in più: qual è il ruolo di questa stasi, delle città silenti, dei tanti negozi chiusi, dei lavoratori a casa? Qual è il rischio e qual è la possibile rivoluzione?
Atto di violenza è stato scritto da Manuel de Pedrolo fra il 1960 e il 1961, quando Francisco Franco era ancora al potere. Censurato più volte, viene pubblicato solo nel 1975, dopo la morte del dittatore. Altre opere di de Pedrolo avevano subito la stessa sorte: il franchismo proibiva le opinioni politiche discordanti da quelle del regime o in contrasto con la morale comune in materia di religione, sesso e famiglia. Ma c’era anche un altro potenziale elemento sovversivo: la lingua dell’autore, quel catalano che poteva dare adito a spinte identitarie pericolose.
De Pedrolo è stato attivo in tutti i generi letterari e nelle questioni politiche, a sostegno soprattutto della libertà del suo popolo. Frequenti, nelle sue opere, sono le descrizioni di una società ipocrita e repressa sul piano politico e sociale. Il suo Mecanoscrit del segon origen, è il libro più tradotto della letteratura catalana (in italiano col titolo Seconda origine).
La prima edizione italiana di Atto di violenza, tradotta da Beatrice Parisi, è stata pubblicata recentemente da Paginaotto, progetto editoriale dell’associazione Tiring House, fondata da un gruppo di psicanalisti.