“Queenie” di Candice Carty-Williams
Sai quando ti chiedono come stai su una scala da uno a dieci, dove uno è il peggiore e dieci è il culmine della gioia? Ecco, al momento funziono a un regime di “come stai da uno a cinque?” Al momento mi sembra di vivere a metà.
Queenie (Einaudi, 2021, traduzione di Maria Grazia Perugini), debutto di Candice Carty-Williams, è stato spesso definito la commedia inglese del momento, una sorta di Bridget Jones che si districa tra drammi amorosi, precarietà lavorativa e problemi di autostima. In realtà è molto più di questo. Infatti, sebbene la scrittura incalzante racconti la storia della protagonista con una patina di comicità, i toni umoristici rivelano l’amaro retrogusto che si nasconde dietro quasi ogni vicenda del libro.
Lo stile molto didascalico ricorda a tratti la sceneggiatura di un prodotto audio-visivo: i numerosi dialoghi e gli episodi che si susseguono senza un attimo di tregua danno vita a un racconto che si può chiaramente visualizzare scorrendo tra le pagine, e per questo i suoi effetti sono ancora più immediatamente riconoscibili.
Con Queenie si ride, si riflette e ci si rammarica – spesso contemporaneamente, trascinati dal caos in cui cade la vita della protagonista.
Queenie è una donna nera di venticinque anni che ha una relazione stabile, amiche su cui contare e un lavoro che tutto sommato le piace. Si impara lentamente a conoscerla leggendo dell’anno forse peggiore della sua vita: ha un aborto spontaneo, il suo fidanzato Tom la lascia senza saperne nulla, e – da quel momento – tutto sembra cadere rovinosamente a pezzi.
Per poter ritrovare un senso di controllo sulla sua vita, Queenie inizia a rifugiarsi nel sesso, andando a letto con diversi uomini che si rivelano poi sempre sbagliati: impegnati, sposati, apertamente razzisti, menefreghisti. C’è Ted, collega del suo ufficio, che la fa licenziare denunciandola alle Risorse Umane; Guy, che si scopre essere il fidanzato di una delle sue migliori amiche; Courtney, che al primo appuntamento la porta a casa solamente per umiliarla con i suoi pensieri razzisti. Ce ne sono anche molti altri per cui Queenie mette a rischio la sua salute fisica e mentale: l’illusione di avere il controllo, infatti, la spinge a sottomettersi a questo tipo di abusi, cercando briciole di affetto per colmare il vuoto che Tom ha lasciato.
Pagina dopo pagina, Queenie continua a perdere parti importanti della sua esistenza: le amicizie, il lavoro, la casa – tutto sembra sfuggirle di mano nel disperato tentativo di trattenerlo. Empatizzare con lei a primo impatto risulta difficile, finché non si comprende il modo in cui soffre: è quasi frustrante vederla tornare continuamente a fare ciò che la fa stare male, come se – pur avendo i mezzi e il supporto – la sua autodistruzione fosse inevitabile. I pesi che la schiacciano sono molteplici, e spesso insostenibili.
Infatti, oltre a tutto ciò che le accade, Queenie – in quanto donna nera – subisce discriminazioni e micro-aggressioni:
Non posso alzarmi una mattina e smettere di essere una donna nera, Janet. Non posso entrare in una stanza e non essere una donna nera, Janet. In autobus, in metropolitana, al lavoro, in mensa. Rumorosa, impudente, sfacciata, rabbiosa, insolente, polemica, malevola.
Tutti le vogliono toccare i capelli, gli uomini la considerano “sexy” perché “esotica”, la sua datrice di lavoro respinge le proposte articoli più impegnati, è costretta a sentire ogni giorno notizie sulla violenza di stampo razzista. Questa parte della sua identità e l’oppressione che ne consegue incidono inevitabilmente sulla sua salute mentale: oltre a tutte le spiacevoli vicende che le accadono, infatti, Queenie ogni giorno deve fare i conti con una società che la relega ai margini perché donna nera.
Eppure, la storia della venticinquenne alla ricerca di un suo posto nel mondo si intreccia – inevitabilmente – a quella di una propria identità dentro e fuori da questi schemi predefiniti: Queenie non è bianca, ma allo stesso tempo viene accusata di essere «bianca dentro e nera fuori come una noce di cocco», perché non si veste in un determinato modo, perché il suo ex fidanzato è bianco, perché «le donne nere forti non piangono».
Infatti, quando la situazione si fa talmente insostenibile da provocarle attacchi di ansia, Queenie decide di andare in terapia attirando su di sé la diffidenza della propria famiglia, della nonna in particolare. Il fattore generazionale e culturale per cui parlare del proprio dolore è un tabù che rende deboli incide molto su queste considerazioni, ma la decisione di intraprendere questo percorso si rivelerà un’ancora di salvataggio per la vita di Queenie, al momento governata da onde caotiche che non riesce ad arginare da sola.
Attraverso le conversazioni con la terapeuta, la protagonista riesce finalmente a fermarsi un momento per respirare: inizia ad affrontare i traumi infantili, tra la violenza di un patrigno abusivo e una madre succube; riesce a vedere le origini delle sue più grandi paure; comincia a trovare strategie di coping che non siano legate all’autosabotaggio. Pian piano, Queenie muove i primi passi verso la riappropriazione della sua vita, che sembra esserle stata strappata da tutti gli eventi che non ha potuto decidere, imparando a non lasciare «che sia il passato a stabilire il modo in cui vive la propria vita da adulta». Ovviamente, il percorso non sarà facile né breve: serve tempo e spazio per ricominciare a esistere dopo un crollo, soprattutto in un mondo che presenta così tanti ostacoli.
Queenie è un libro che parla di perdersi e iniziare a ritrovarsi, di razzismo e salute mentale, di marginalizzazione, di trauma ed elaborazione con una leggerezza necessaria ma mai davvero leggera: si ride molto, ma con un peso sullo stomaco che non se ne va mai. L’evidenza di tutto ciò che Queenie ogni giorno vive non lascia mai indifferenti, ma spalanca gli occhi ancora troppo chiusi, costringendoci a fare i conti con una realtà in cui viviamo e a cui troppo spesso contribuiamo. Tramite le parole della sua amica Kyazike, persona che più le dà forza, viene espresso un augurio in cui la sua storia risuona forte e chiara:
Le hai detto che ero libera di essere la ragazza nera che volevo.
Ed è forse questa la speranza più grande che il libro comunica: che Queenie – come anche moltissime altre persone di una generazione, di una cultura, di un gruppo marginalizzato – riesca finalmente a trovare la sua strada e vivere la propria vita.