“Swing Low” di Miriam Toews
Nella buia casa della depressione non ci sono finestre da dove vedere gli altri, solo specchi.
Swing Low (marcos y marcos, 2021, tradotto da Maurizia Balmelli) è uno splendido omaggio che l’autrice canadese Miriam Toews ha voluto fare a suo padre: quell’uomo spesso sfuggente, silenzioso, sopraffatto dall’amore che provava e che non sapeva esprimere. Mel – questo il suo nome – si è suicidato un 13 maggio qualunque, dopo una vita passata a fare i conti con le sofferenze che lo bloccavano, legandogli i polsi e togliendogli il fiato. In questo libro, la figlia decide di raccontare la sua storia attraverso i frammenti che ha lasciato – scritti, aneddoti, episodi vissuti in prima persona – per sollevare almeno un po’ il macigno della sua assenza, per abbracciare, e forse cercare anche di capire.
Nel romanzo, la scrittura diventa rifugio: se per Miriam è un modo per esorcizzare la perdita e contemporaneamente elaborarla, per Mel «penne e carta sono gli strumenti indispensabili», metodi di salvezza per ricordare, guardarsi dentro e trovare «il bandolo di questo casino». Ed è così che – da lettori – possiamo conoscere tutto ciò che ha segnato la vita dell’uomo: è lui stesso a raccontare la sua infanzia negata, la madre alcolista e i persistenti sensi di colpa; la diagnosi di psicosi maniaco-depressiva a diciassette anni e le conseguenti cure farmacologiche; la sua passione per l’insegnamento con cui si identificava tanto intimamente da vivere per il suo ruolo e morire nell’impossibilità di rivestirlo.
Ma protagoniste del libro sono anche le figure più importanti che gravitavano nella vita di Mel, le tre donne a cui cercava di donare incondizionatamente tutto il suo affetto: la moglie e le due figlie. Dalle sue parole, traspare un amore sincero e potente: senza di loro niente avrebbe avuto un senso, eppure a volte la sua condizione lo sovrastava, spingendolo a chiudersi e a non farsi trovare.
Avevo una figlia di sei anni che per me rappresentava il mondo intero e, in quel periodo, se mi entrava in camera per raccontarmi la sua giornata carica di avventure mi voltavo verso il muro e le davo le spalle.
Non è facile entrare nella mente di chi soffre, nel funzionamento che sembra così innaturale tanto da non far coincidere i fatti con le parole. Eppure, nel luogo in cui i punti di vista di padre e figlia si fondono, i meccanismi si svelano: i pensieri di Mel occupano tutto lo spazio del racconto, narrando come a volte il dolore può indurre le persone a comportarsi nei modi più assurdi e incomprensibili, e la scrittura di Miriam ce li restituisce con profondità e precisione, rendendo pubblica la fragilità di un uomo che ha provato a fare qualunque cosa per esistere abbastanza felicemente in un mondo che la nasconde, la ripudia.
Mai e poi mai ammisi, neppure riconobbi con me stesso che ero malato. Se scivolavo nella depressione, mi dicevo, era per una debolezza di carattere, quanto alle delusioni e ai fallimenti della mia vita, seppur caratteristiche di molte vite ordinarie, erano quel che credevo di meritare.
L’obiettivo principale per Mel era sempre nascondersi: non mostrare le sue debolezze, celare al mondo la sua malattia, non farne parola con anima viva – involontariamente amplificando la dimensione delle sue sofferenze, diventate a un certo punto montagne impossibili da coprire. Se c’è un filo conduttore tra tutti i pensieri e i sentimenti dell’uomo, quello è la vergogna: di non essere un padre e un marito perfetto, di possedere ciò che la società vede come difetto intrinseco, di non riuscire a vivere senza arrecare dolore o danneggiare le persone intorno. Viene da sé quindi interrogarsi su tutte le possibili cause e ragioni, sulle colpe e sulle origini:
E se la depressione altro non fosse che rabbia interiorizzata, come dicono alcuni? E se nascesse da una perdita infantile? Da una predisposizione genetica? Dall’odio verso se stessi? Da un’incapacità di essere se stessi? Dalla mancanza di uno scopo? Dall’incapacità di essere liberi? Da una paura della libertà? Dal desiderio di essere insieme liberi e prigionieri? Dall’essersi strozzati con un’arachide a due anni? Forse la depressione deriva dal farsi troppe domande che non hanno risposta.
Ciò che Mel si chiede risuona forte e chiaro in tutto il romanzo: se solo l’avesse saputo, non avrebbe consumato tutte le sue energie alla ricerca di una soluzione. Se solo avesse avuto la possibilità di capire, non si sarebbe caricato sulle spalle il peso di tutte le ferite subite e che lui stesso aveva inflitto: non riuscire per mesi a parlare con sua figlia, addossare tutte le responsabilità familiari alla moglie che tanto amava, non essere presente quando lo voleva. Ma Mel non aveva voce – almeno non una voce chiara e direzionata – e proprio qui interviene la figlia: raccontando la sua storia, quella vera, mostra tutto ciò che il padre avrebbe disperatamente voluto nascondere senza successo, perdonandolo e perdonandosi.
Swing Low – oltre a essere un romanzo che indaga delicatamente un tema ancora troppo sconosciuto come quello dei disturbi mentali e dell’essere forzati a convivere con le proprie sofferenze – è un libro che emerge dalla necessità, dalla terribile urgenza di raccogliere i cocci e rimetterli insieme per seguire le crepe con le dita e sperare che portino da qualche parte. «Questo libro è il mio tentativo di dimostrare che mio padre aveva torto», scrive l’autrice, che Mel non era assolutamente quel fallito che pensava continuamente di essere. Di fronte alla perdita, all’odio di sé, alla malattia, al suicidio, sua figlia vuole riscattarlo, raccontando una storia che potrebbe essere quella di tanti altri emarginati, svelando che ciò che sembra terrificante in realtà va ascoltato, perché «esposti alla luce del giorno, alcuni dettagli terribili diventarono molto meno spaventosi. Mio padre, devo riconoscerlo, non la pensava allo stesso modo, ma trovò una via per lenire il proprio dolore, e io pure».