“Nascondersi” di Jaime Fountaine: sull’impossibilità di farsi vedere
È difficile misurare lo scorrere del tempo quando le cose restano le stesse. Dopo un po’ non so se sono nascosta da minuti o da ore.
Il racconto dell’adolescenza – il cosiddetto coming of age – è un tema affrontato in ambito letterario da diversi punti di vista, talvolta anche molto distanti tra loro. Ciò che li accomuna tutti, però, è l’evoluzione di una persona non più bambina e non ancora adulta che cerca di trovare un modo per vivere la propria individualità: ci sono sviluppo, formazione, movimento. Nel breve esordio di Jaime Fountaine, Nascondersi (Pidgin Edizioni, 2021, traduzione di Stefano Pirone), sin dalle prime pagine appare evidente che non troveremo nulla di tutto questo, perché il contesto in cui la protagonista si muove è così soffocante da impedirle ogni tentativo di definirsi.
Con una scrittura pregna di malinconia e disillusione, Fountaine narra la storia di una ragazza di tredici anni che si ritrova a vivere giornate sempre uguali: tra una madre che non la accudisce, rapporti sociali inconcludenti e partite a nascondino, il tempo sembra non passare mai nella periferia statunitense, e contemporaneamente scorrere troppo in fretta. La protagonista osserva tutto ciò che avviene nella sua vita lasciandosi trascinare dagli eventi, e lo racconta con una voce assente e priva di speranze – come d’altronde appare tutta la sua esistenza. Leggere i suoi pensieri significa introdursi nel mondo di un’adolescente schiacciata dal peso delle circostanze, al punto tale da non credere nemmeno di poter immaginare un’alternativa.
«Che differenza c’è tra dire di sì e volerlo?» chiedo. Non lo so veramente.
La ragazza non ha il tempo e lo spazio necessari per coltivare il suo sé più intimo, e proprio per questo è costretta a rimanere sullo sfondo della propria vita; oramai si è nascosta da talmente tanto che non sa più come ritrovarsi. Sono molte le difficoltà che affollano le sue giornate: deve lavorare come babysitter per comprarsi ciò che le serve; deve pensare alla madre, che non riesce a tenere in piedi la sua vita perché dipende da chi ha accanto; deve fare i conti con amicizie di convenienza e con un ragazzo che si vergogna di lei. Come se tutto ciò non bastasse, nella sua zona si aggira un maniaco che molesta le adolescenti della sua età: un’ulteriore preoccupazione che si aggiunge alla già precaria pila da tenere in equilibrio. Quello che più destabilizza, però, è che questa costruzione – sorretta da piccole mani che stanno crescendo – non cade mai. Non sono né la presunta maturità raggiunta dalla protagonista diventata grande troppo in fretta né la sua inspiegabile abilità a mantenerla in piedi – piuttosto, è la sua toccante mancanza di partecipazione emotiva: questo crollo non può esistere se nessuno si fa male.
Ciò provoca riflessioni molto profonde sulla crudeltà che a volte avvolge l’ambiente circostante e obbliga una ragazza di tredici anni ad abbandonare la spensieratezza e la volontà di scoperta perché – semplicemente – non c’è modo di provarle.
Avere delle amicizie richiede fingere tantissimo. Fingere che ti piacciano tutte le stupidaggini che piacciono alla gente. Fingere che ti importino cose come sport o brutta musica o stupidi programmi televisivi. Fingere che abbia senso vestirsi come tutti e comportarsi come tutti, quando non mi sento come nessun altro nel mondo intero.
Tutta la costruzione del libro e dei suoi personaggi si basa su questo gioco quasi eterno tra il nascondersi e il volersi rivelare: le partite di “caccia all’uomo” a cui partecipano i ragazzini simboleggiano questa tensione tipica dell’adolescenza scissa tra il desiderio di passare inosservati e quello di urlare per farsi finalmente riconoscere, di sparire un momento accovacciati dietro ai cespugli per creare almeno una connessione – per quanto flebile possa essere – con l’altro.
Questa ambivalenza si riscontra anche nel mondo degli adulti, tra una madre che finge di essere una persona che non è per non rimanere sola e un criminale che gira per il quartiere nudo, con una maschera da sci che gli copre il volto. Proprio per questo l’universo creato da Fountaine – specchio di quello reale – sembra un limbo in cui niente è destinato a mutare, dove ci si può solamente ritagliare un piccolo spazio o un breve momento per tentare – rimanendo puntualmente amareggiati.
Se si dovesse scegliere una sola parola per descrivere questo romanzo, sarebbe senza dubbio immobilità: non c’è nessun tipo di via di fuga o di possibilità, non c’è modo di entrare in contatto con altre emozioni che non siano la rabbia rassegnata e il disgusto, non c’è progresso perché non esistono obiettivi di vita che scaldano il cuore e mettono in moto. La protagonista esiste – questo è tutto ciò che può fare, e che forse nemmeno vorrebbe. Diventare adulte, infatti, significa anche fare i conti con il fatto che la propria autodeterminazione viene sovrastata dalla propria immagine sociale, in particolar modo quando si parla di femminilità. Il corpo che cambia e l’incapacità di controllarlo – unita all’impossibilità di impedirne l’appropriazione da parte di chi si ha intorno e della società stessa – diventa solo un’ulteriore tassello di frustrazione per una ragazza già infinitamente provata dall’impossibilità di dedicarsi a sé stessa.
Ora il corpo non è mio. Appartiene a tutti gli altri, e a nessuno piace così com’è.
Fountaine ci accompagna in questo viaggio di apparente crescita attraverso la solitudine e la monotonia con una scrittura puntuale, secca e decisa. I pensieri della protagonista sono incredibilmente duri e rifiniti, tanto che si può dire che il suo sia un punto di vista ormai adulto, che non rispecchia la sua ancora tenera età.
Ogni parola, però, trasuda una volontà enorme di disperazione e di sentimento, di poter provare anche solo un minimo brivido che possa smuoverla e provocarle una reazione, una qualsiasi. È proprio in questo divario interiore che si colloca la personalità dell’io narrante: tra la paura delle emozioni e la voglia di sperimentarle, tra la vita pratica e l’impedimento a trovare alternative, tra il desiderio di nascondersi e quello di farsi vedere.
Ma – più spesso di quanto si pensi – succede, come in questo caso, che sia il mondo a decidere cosa svelare e cosa tenere nell’ombra: essere costretta a esistere come comparsa nella propria vita porta la protagonista a vedere l’anonimato e il nascondiglio come la sua unica dimensione.
Se avesse potuto davvero scegliere, chissà se avrebbe voluto questa invisibilità.