Anna Marchesini e Luigi Pirandello
l’eterno legame tra microscopico e macroscopico
Cosa lega l’autrice e attrice, originaria di Orvieto, al novelliere più amato del Novecento? Appartenente nulla.
Di Anna Marchesini, compianta tritagonista – insieme a Massimo Lopez e Tullio Solenghi – del Trio più famoso degli anni Ottanta/Novanta, ricordiamo le risate, la spensieratezza, la magistrale interpretazione di una Lucia Mondella sui generis, la lunga malattia ma anche, e soprattutto, la voglia di vincerla.
Poco si parla della sua produzione letteraria, solida e valida, un prezioso gioiello ben nascosto.
Nel 2013 Rizzoli pubblica Moscerine, antologia di nove racconti apparentemente slegati tra loro eppure, a ben guardare, tenuti insieme da un interesse spiccato e ben tracciato per il particolare, il celeberrimo “effetto farfalla”, il battito d’ali in grado di generare un uragano. Interesse, quest’ultimo, tremendamente comune al Pirandello novelliere e romanziere.
Chi sono, o meglio, cosa sono i moscerini del titolo?
La Marchesini declina al femminile tutti gli anfratti del quotidiano, i microscopici angoli di paradiso o d’inferno nei quali si nasconde il cambiamento, l’uragano di cui sopra. È vero che un attimo può cambiarci la vita, in bene o in male? Pirandello pare strizzare l’occhio a questa possibilità, intento a ritrarre felicemente momenti in cui, per un atto o una parola, la vita dei suoi personaggi cambia.
Lo sa fin troppo bene Vitangelo Moscarda, protagonista dell’omonimo romanzo del 1925, la cui identità pare fatta a pezzi, frantumata precisamente in centomila frattali di coscienza, dall’appunto innocente fatto dalla moglie, Dida:
– Mi pende? A me? Il naso?
E mia moglie, placidamente:
– Ma sì, caro. Guardatelo bene: ti pende verso destra.
Nell’attimo in cui Vitangelo comincia a considerarsi non più “uno” ma “molti”, in base alla visione che di sé hanno gli altri, la sua vita riceve la scossa. Ed eccolo qui, il nostro atteso battito d’ali: una banale chiosa sul naso, piccola quanto un moscerino, ed eccoci servita la rivoluzione.
Anna Marchesini legge, rilegge e reinterpreta l’opera pirandelliana, lo fa con finezza e acume, prova quasi divertimento nel trasformare la vita dei suoi personaggi.
Proprio come la vita del Moscarda cambia a causa di un appunto banale, la signorina Iovis, grigia zitella protagonista del primo dei nove racconti, scevra della civettuola abitudine di “andare sui tacchi” quando ormai pensa di stringere tra le mani la vittoria – il tanto sospirato appuntamento col maestro Alfonso Perrès – ruzzola in strada e finisce, tragicomicamente, con la testa infilata nel secchio del fioraio. Basta un attimo, un banalissimo piede in fallo e il futuro, immaginato roseo e romantico, svanisce. Che si possa accostare al pirandelliano sentimento del contrario?
Certo è che la storta alla caviglia della signorina protagonista rappresenta il momento in cui tutto cambia. Umorismo voluto o meno, quello sulle nostre labbra non è un sorriso sereno ma un “riso amaro” che ci fa esclamare un puntuale:
Perbacco! Proprio ora che tutto sembrava filar liscio?
Dettagli, dunque, moscerini della vita che tuttavia sono in grado di scuotere la narrazione dalle fondamenta.
Sia Pirandello che la Marchesini si dimostrano abili conoscitori dell’effetto farfalla: da una piccola perturbazione iniziale nasce un uragano (Gian Italo Bischi, Alice e Bob 42. Matematica e letteratura. Dalla Divina Commedia al Noir, EGEA spa, Milano 2015, p. 51).
Ma la passione per il microscopico che influenza il macroscopico è presente anche nella prosopopea, cioè nella capacità dell’autore d’incarnarsi fisicamente nei moscerini della vita. Lo fa Pirandello, lo fa la Marchesini.
Nella sconfinata produzione del primo spicca, più precisamente nella raccolta Berecche e la guerra (1935), la novella Di sera, un geranio, racconto a metà tra l’onirismo ed il perturbante (Marco Manotta, Luigi Pirandello, Mondadori, Milano 1998, p. 182) nel quale ci è mostrata l’anima di un morente nel momento in cui si stacca dal corpo.
Ormai priva di legami terreni, quest’ultima esce dalla finestra e attraversa il giardino, esprimendo il desiderio di continuare a vivere in qualsiasi altra forma, anche in un piccolo geranio rosso.
Nella novella pirandelliana l’anima trova rifugio in una creatura piccola, un fiore appunto, in La torta nuziale invece vediamo il mondo attraverso i caleidoscopici occhi di un gruppo di mosche, impegnate alacremente ad imbrattare con escrementi di ogni tipo la sontuosa torta candida che dà il titolo alla novella:
Tre, tre obbrobriose macchie nere, precise nette inzaccherano la panna immacolata, ogni mosca ha scelto il suo territorio, il suo disco volante nuziale, si ignorano, per lo più rimangono distanti, soltanto per un attimo due di loro si scontrano sullo stesso punto, eh no!
Il culto del piccolo – in questo caso lo è davvero: si parla di mosche! – è tutto giocato nell’alternanza tra il mondo dei minuscoli insetti e quello della festa in onore dei due novelli sposi: da una parte ci si imbratta le zampette di panna e zucchero, dall’altra si mangiano fette di torta infestate dalle uova che i microscopici esserini hanno deposto tra gli strati candidi della torta.
C’incarniamo, dunque, in una delle creature più piccole – e fastidiose – che la natura abbia creato, eppure proprio quei piccoli insetti modificheranno il corso degli eventi. Lo sposo e la sposa, gli invitati e i bambini, mangiano golosamente la torta e subito sono presi da una frenesia che li spinge a danzare come la matrigna di Biancaneve.
Un’altra volta qualcosa di microscopico intacca il macroscopico.
E così accade in tutti i luoghi della raccolta di Marchesini, da Santo, triste eremita, morto dentro a causa della morte dei genitori e del cane Mollo, novello Argo, e ricondotto alla vita da un altro evento luttuoso: la morte di Lisetta, personaggio che pur dando il nome alla novella resta “dietro le quinte” del racconto sino a che la stessa morte non ne fa una protagonista, smuovendo – proprio come un battito d’ali – la vita di Santo.
La stessa cosa accadeva, molti anni prima, in quasi la totalità della produzione pirandelliana.
Un amore, quello per il particolarismo, che riverbera nello stile – la Marchesini gode di una punteggiatura molto personale, cifra della sua produzione, mentre Pirandello vanta una lunga lista di tentate imitazioni – e che avvince il lettore sino alla fine, alla ricerca disperata del punto di congiunzione, dell’anello narrativo in grado di saldare i mondi, così diversi eppure inseparabili, del microscopico e del macroscopico.
L’infinitamente piccolo è avvinto all’infinitamente grande, in maniera indissolubile e imperitura.
Ci vuole, questo amore per il particolarismo, perché ha un gusto antico e moderno insieme e perché, come il mito all’inizio dei tempi, si prefigura quale maestro perfetto di vita e di senso, aiutandoci a spiegare il gran mare dell’universale (Giovanni Calendoli, Luigi Pirandello, Editrice La Navicella, Roma 1962, p. 31) e ad essere ben consapevoli in che modo, da un momento all’altro, il piccolo battito d’ali di una farfalla sia in grado di cambiare la nostra vita per sempre.