Blaise Cendrars
lo spirito di un’epoca
Ripubblicato dopo tanto tempo, torna in libreria per i tipi di Adelphi Moravagine dello scrittore svizzero naturalizzato francese Blaise Cendrars (1887-1961) tradotto in modo magistrale da Leopoldo Carra.
Moravagine uscito nel 1926 è il frutto di un ossessione: esorcizzare un fantasma, liberare lo sfogo che più l’uomo tiene a freno, il nostro orrido, l’orrore dell’essere.
Il racconto si avvia con la voce narrante di Raymond, un medico trasferito nella clinica di Waldensse vicino a Berna e prosegue narrandoci del suo incontro con Moravagine, – ultimo discendente di una nobile famiglia dell’Est Europa – un fragile omino, quasi rachitico dotato di uno sguardo fiammeggiante e di carattere «traviato, strampalato, amorale, fuorilegge e impulsivo», il quale dimostrerà nel corso della narrazione il suo vero vizio –disturbo mentale; quello di uccidere senz’ alcun rimorso le donne della sua vita. Quelle stesse donne che tanto aveva amato, che tanto lo hanno turbato e per cui nel tempo si è andata saldando nella sua la visione della donna come spirito negativo. Raymond favorirà la fuga del pazzo (Moravagine) dalla clinica psichiatrica e questo sarà l’inizio di un viaggio che durerà per più di dieci anni intorno al mondo, dove si lascerà alle spalle morte, infrazioni e orrore di una mente psichedelica spesso per puro divertimento.
Non sono della vostra razza. Appartengo al clan mongolo che proclamò una tremenda verità: l’autenticità della vita, la conoscenza del ritmo e che sempre distruggerà le vostre statiche, incasellate dimore di spazio e tempo.
Molto attivo nella legione straniera francese, partecipò alla prima guerra mondiale. Nel 1915 in combattimento perse l’avambraccio destro, sua mano di scrittore (si veda il romanzo La mano mozza) e la letteratura divenne per lui un metodo puramente senza fini scopi arrivando sodo al punto dove l’immaginario si intreccia a vicende reali.
Raymond e Moravagine nel corso dell’opera vogliono portare il caos, inappagati di qualsiasi attività sociale.
Agivamo come una macchina che gira a vuoto fino a spegnersi, inutilmente, inutilmente, come la vita, come la morte, come un sogno. Nemmeno l’infelicità ci interessava più.
Così anche l’autore – che appare anch’esso nel romanzo come conoscente di Raymond- spesso con le sue opere è stato rivolta e come principio si è posto la domanda “a chi appartiene il mondo se non a me?” e si è dato come risposta questo libro pretenzioso e inclassificabile come Moravagine: la grande belva umana che lo ha impegnato per quasi tutta la sua vita tornandoci sempre, più volte sopra, commentandolo e ampliandolo, ma che nella sua ultima versione ci presenta il libro incompiuto come se mai fosse soddisfatto del lavoro svolto ed i lettori più attenti potranno osservare come la narrazione a tratti potrebbe risultare irregolare o senza un determinato filo conduttore delle vicende che però piano piano si riprendono verso la fine.
Cendrars aveva bisogno di sfogo, della pura verità e la doveva dire subito la sua verità che è questo grande Io fatto di ossessioni maniacali, morbosi pensieri su una vita che esteriormente non viveva più e così da scrittore dall’animo leale ha pensato bene di scrivere un libro sul suo doppio (anche triplo se vogliamo visto che il susseguirsi delle vicende brutalmente s’affonda in un romanzo a scatole cinesi) che diventa pagina dopo pagina un turbine di orrori su una società ancora marcata dalla guerra.