“Campo di pietra” di Tove Jansson
Tove Jansson, conosciuta in tutto il mondo soprattutto come autrice di libri per l’infanzia, con Campo di pietra (tradotto da Carmen Giorgetti Cima per Iperborea) sorprende il lettore attraverso un romanzo figlio di Ibsen e di Cechov, che unisce l’esistenzialismo del primo alle atmosfere malinconiche del secondo; un romanzo che mette in scena il dramma solitario di un uomo alle prese con quella materia a tratti spaventosa e demoniaca che è la propria coscienza.
La prima scena di Campo di pietra ha la vivida essenzialità di un dipinto di Hopper: due uomini di mezz’età discutono in un ristorante nel cuore di Helsinki. Jansson tratteggia con rapide pennellate la scena: un unico lampadario illumina i due uomini seduti al tavolo di un locale deserto, mentre sullo sfondo la città brilla dei colori della primavera.
Jonas, un vecchio, burbero giornalista, confessa al suo editore il motivo della sua inquietudine:
Ho consumato troppe parole in questo lavoro, tutte le mie parole sono logore e snervate, sono stanche, se capisci cosa voglio dire. Parole, milioni di parole ho scritto sul tuo giornale, capisci cosa vuol dire scrivere milioni di parole e non poter essere mai sicuri di aver scelto quelle giuste. È così che si diventa silenziosi, sempre più silenziosi.
Ciò che però ossessiona il protagonista è un magnate dei media, il signor Y, come lo chiama lui; un corruttore di parole che si è servito del linguaggio per creare scandali, per indulgere e alimentare nei suoi lettori un gusto morboso per il sensazionalismo e il patetismo. Jonas indaga e riflette sulla parola, sul suo potere affabulatorio, sulle straordinarie possibilità del linguaggio pregnante e denso di significati o al contrario vuoto e privo di senso. Come un moderno Don Chisciotte, in un’epoca dove la parola è sfuggente, aleatoria come la chiacchiera, è alla continua ricerca della parola giusta, di quel “rumore sottile della prosa”, per dirla con Manganelli.
Si può finire per diventare molto indifferenti a furia di essere spediti in giro a indurre la gente a parlare, a confidarsi; prendere appunti, cercare di mettere ordine nelle loro sciocchezze, nella loro totale incapacità a trarre conclusioni. O invece riversare tutto tale e quale nelle colonne del giornale… no, io questo non l’ho mai fatto, ho sempre cercato di essere onesto; proteggere e rendere chiaro il linguaggio era per me una necessità assoluta.
Sollecitato dalle figlie decide lo scrittore si sposta nelle isole Åland per poter lavorare alla biografia del tanto detestato magnate dei media. In questo nido familiare di cechoviana memoria Jonas è solo, si sente solo, avverte la distanza che lo separa dal mondo spontaneo delle figlie; come il protagonista di Una storia noiosa di Cechov si logora nell’amarezza. «Perché devono assillarmi?» si domanda con crescente irritazione. Il suo unico desiderio è di dedicarsi anima e corpo alla biografia di Y, ma nella sua esistenza monacale irrompe di continuo la vita attraverso le figlie che con la loro semplice presenza, con la loro ansiosa premura turbano il suo idillio spirituale. Più passano i mesi, più l’impossibilità di dedicarsi pienamente alla scrittura lo tormenta. Su ogni momento, su ogni ricordo incombe, come un detestabile ritornello, la presenza di Y che da semplice oggetto di studio diviene a poco a poco una presenza fissa nella mente di Jonas, un metro di paragone attraverso il quale filtrare la propria esistenza, i propri fallimenti e il naufragio del suo matrimonio.
Con l’avvicendarsi delle stagioni, pungolato dal contatto con la natura, con i boschi, il mare, i campi dell’isola, Jonas compie una metamorfosi, prende consapevolezza di una vita, lontana dagli intellettualismi di cui è prigioniero, che non ha bisogno di parole per essere spiegata e per essere vissuta. Jansson descrive scrupolosamente l’epifania del protagonista:
Continuò ad avanzare attraverso la boscaglia, inciampò, cadde e rimase lì disteso sul muschio come in un delicato abbraccio. Dopo un po’ si girò sulla schiena ed espose il volto a quella pioggia leggera che cadeva piano in un mormorio di sussurri. Niente sembrava avere più importanza.
Questa nuova saggezza spinge Jonas a riavvicinarsi alle figlie e a ritrovare un legame con l’umanità che prima, chiuso nel suo mondo d’idee e di parole, aveva disprezzato.
Il romanzo di Jansson ha il sapore di una pièce teatrale, la trama è semplice, quasi scarna; il mare, il bosco, i paesaggi dell’isola sono descritti con poche, poetiche espressioni grazie a una scrittura cadenzata che commuove senza essere sentimentale, che racconta di una tragica metamorfosi interiore senza mai strizzare l’occhio al melodramma.
Campo di pietra è un romanzo che non può essere letto frettolosamente; ogni pagina è densa di allusioni e riflessioni che solleticano la fantasia del lettore, esortandolo a interrogarsi sulle parole usate quotidianamente per descrivere e definire la realtà, una realtà che in assenza di un linguaggio chiaro diviene confusionaria, caotica, superficiale. Il viaggio a ritroso nel proprio passato, gli interrogativi che Jonas si pone, il fallimento delle sue aspirazioni intellettuali potrebbero far pensare all’ennesimo romanzo incentrato sulla crisi dell’uomo borghese medio; Campo di pietra, invece, ribalta questo paradigma, si svicola con grazia da questi cliché letterari e si fa racconto degli interrogativi ultimi che l’uomo si pone.