“Copula mundi” di Carlo Miccio
Costruire una storia credibile sulla base di un racconto credibile,
per garantire un futuro credibile a un essere umano.
Lungo la via Appia, l madre di tutte le strade, «regina viarum, come la chiamavano gli antichi romani», alle porte di Latina, sorge un vecchio e malridotto edificio, il Casolare: un motel frequentato da amanti clandestini, parzialmente riadattato a centro di accoglienza straordinaria per profughi e richiedenti asilo. Ed è qui, «in questo raccordo di marginalità, tra migranti sospesi nel vuoto di un transito e lavoratori precari, prigionieri di esistenze altrettanto sospese», che è ambientato Copula mundi di Carlo Miccio, (Edizioni alphabeta Verlag, 2022): in un ecosistema di storie, destini, relazioni e voci che si intrecciano per giungere vividi fino a noi che pure, magari, non sappiamo niente dei centri di accoglienza. Esattamente come non ne sa niente Marco Cicoli, il protagonista quarantenne, al quale, a seguito di una condanna per guida in stato di ebbrezza, l’autorità statale ha assegnato centoventi ore di lavoro socialmente utile. Due mesi in cui egli dovrà, appunto, recarsi al Casolare, presso la Cooperativa Albalonga, senza una mansione precisa.
Lui, ultimo tra gli ultimi, si metterà in ascolto degli altri, per vivere, forse, quella trasformazione che alla sua età non avrebbe mai immaginato possibile. Perché questo è il Casolare: un luogo dell’impossibile, «capace di essere allo stesso tempo brutalmente reale e totalmente inverosimile», dove possono accadere le cose più drammatiche e quelle più assurde, e dove il tragico e il grottesco si contaminano l’un l’altro come si contamina di diversi registri la scrittura di Carlo Miccio, mai prevedibile e sempre attenta a non eccedere nel facile pietismo o nella caricatura.
È il senso profondo di umanità ad attraversare le pagine del romanzo. La consapevolezza che tutti noi potremmo essere uno qualsiasi degli “abitanti” del Casolare, non importa se un richiedente asilo o un operatore. Non pare infatti esserci molta differenza, non soltanto tra chi ha attraversato il mare su un barcone, come Farah, che viene dalla Somalia, o Lamin, che è fuggito dalla Nigeria, ma anche tra i mediatori culturali e gli operatori della struttura. Sono tutte vite segnate da una sofferenza che sembrerebbe insanabile, se non fosse che si realizza quasi una seconda migrazione, più ampia, grazie alla quale l’uno si fa molteplice. E questo legame che si crea, questa unificazione dei diversi, richiama volutamente l’espressione latina del filosofo umanista Marsilio Ficino: copula mundi, che qui, appunto, dà il titolo all’opera, oltre a essere più volte evocata da Marco Cicoli nel corso della vicenda.
Copula mundi si riferisce alla caratteristica peculiare dell’anima umana, quella, cioè, di essere la mediatrice tra Dio e il creato, tra spiritualità e corporeità. E nel romanzo questo ruolo di mediazione è rappresentato dal Casolare, che assurge a luogo simbolico. Esso è uno di quei microcosmi – una «trincea di civiltà» – in cui oggi, nonostante i limiti e le difficoltà, avviene una sorta di miracolo: l’incontro non tanto dell’umano con Dio, bensì dell’umano con l’umano, e quindi il riconoscimento della nostra e dell’altrui fragilità. È questo che Miccio vuole lasciar intendere e vuole testimoniare, ma sempre senza enfasi: come il sacro continui a manifestarsi sui corpi e attraverso le storie degli ultimi della Terra, la cui unica colpa è quella di essere “poveri”.
E come questa povertà sia sempre avvertita come una forma di minaccia da parte di quella stessa società che, se da una parte promuove i centri di accoglienza, dall’altra li depotenzia a causa della burocrazia e di provvedimenti incoerenti che a loro volta sembrano servire, più che a garantire il bene dei richiedenti asilo, a mantenere attivo il sospetto. Quasi l’integrazione sia volutamente dilazionata e resa macchinosa per giustificare “il diritto al rancore” e all’odio di chi vede nei richiedenti asilo un allarme sociale, il vero pericolo alla sicurezza nazionale e alla legalità. I poveri come capro espiatorio dei mali della comunità, insomma, i quali, per essere accolti, devono necessariamente vantare un titolo di vittima al cento per cento, pena l’essere esclusi per sempre da un futuro dignitoso.