D’Annunzio (d)al balcone
L’Italia dell’agosto 1922 è una fischiante pentola a pressione in procinto di esplodere. Il traballante governo Facta, tra alterne vicende in carica da febbraio, predispone il terreno per l’avvento al potere del fascismo. Mussolini ha ormai una stabilità certa nel panorama politico italiano e contro le organizzazioni operaie imperversano le squadriglie fasciste.
Per tutta risposta, dal 31 luglio l’Alleanza del Lavoro porta avanti uno sciopero generale a oltranza per tutelare gli operai da queste violenze, con l’unico risultato di sobillare ulteriormente le camicie nere, poco inclini a una conciliazione e anzi, quasi a dimostrare che fanno sul serio, pronte a occupare il municipio di Milano. Siamo al 3 agosto.
In questo clima elettrico, nell’ottica della formazione di un governo di pacificazione popolare e anticomunista, l’ex premier Nitti tenta di intavolare un dialogo con i due uomini forse più influenti d’Italia: il capo del fascismo e il Poeta Vate, il Comandante Gabriele D’Annunzio.
Questi è ormai uno sfiduciato uomo politico che, reduce dall’esperienza di Fiume tragicamente conclusa con il «Natale di sangue» del 1920, vive un esilio dorato nella villa di Cargnacco (il Vittoriale), acquistata per 360.000 lire il 31 ottobre 1921. Agli occhi dei più, la cosa pubblica sembra un capitolo chiuso per il Vate, che il 3 agosto è all’Hotel Cavour di Milano con Eleonora Duse, nonostante da anni abbia al suo fianco la pianista veneziana Luisa Baccara. Irrilevante, inoltre, appare il ruolo politico di D’Annunzio, se dobbiamo dar fede alle parole spese da Mussolini col segretario del Vate, Tom Antongini. Eppure, è proprio al Poeta che Nitti rivolge un appello accorato affinché egli agisca «sulla gioventù, infiammandola e riportandola sul buon sentiero».
Evidentemente, queste parole devono aver fatto breccia nel cuore del Vate, nonostante provengano da un uomo che D’Annunzio stesso durante l’esperienza fiumana aveva eloquentemente ribattezzato «Cagoja» (‘pavido’, per usare un eufemismo). E così, dopo un’improvvisata orazione di pace quello stesso 3 agosto dal balcone di Palazzo Marino a Milano (in cui scontenta, va detto, le fumantine orecchie nazionaliste e fasciste che arringa), il Comandante pianifica con Nitti e Mussolini un incontro fissato per il 15 agosto.
Due giorni prima di quell’appuntamento (in seguito al quale, nelle parole del memoriale di Nitti, «la storia dell’Italia moderna avrebbe seguito un altro cammino») però, un evento scombussola tutto.
Alle ore 23 del 13 agosto 1922, D’Annunzio precipita dalla finestra della Sala della Musica del Vittoriale, un volo di tre-quattro metri per il quale, dice Antongini, «si spacca il cranio». Da Roma, a inizio settembre, il direttore generale per la Pubblica Sicurezza invia a indagare, in missione segreta, l’eclettico funzionario Giuseppe Dosi, che, sotto mentite spoglie, avvicina il Vittoriale e il Vate, prima di vedere la sua copertura saltare tra la fine di settembre e l’inizio di ottobre. La vicenda pare, allora, scottante: non solo per diversi giorni, dopo la caduta di D’Annunzio, i giornali di sinistra insinuano che si sia trattato di un attentato, ma pure viene avviata un’indagine senza che nessuno, nemmeno il Poeta, abbia sporto denuncia.
La ricostruzione di Dosi, il cui rapporto viene consegnato a Roma il 4 ottobre 1922, sposa l’ipotesi (poco poetica e molto ‘dannunziesca’) di un fatto colposo: la notte del 13 agosto, dopo cena, probabilmente dopo o durante la visita al Vittoriale del compagno del volo su Vienna Aldo Finzi e dell’avvocato Leopoldo Barduzzi, D’Annunzio in pigiama e pantofole si reca nella Stanza della Musica, insieme a Luisa Baccara e alla giovane e avvenente sorella Iole; mentre la prima suona il piano, il Vate e ‘Iolandina’ si trattengono sul balcone. Quel che succede di preciso non si sa, ma secondo Dosi, che ha ascoltato tante voci di frequentatori stabili del Vittoriale, è plausibile che il Poeta abbia tentato un approccio con Iole o che i due si siano scambiati qualche tenerezza, sobillando così la già fervente gelosia di Luisa, la quale in un accesso d’ira avrebbe involontariamente spinto l’eccitato Vate giù dal balconcino.
La boccaccesca ricostruzione di Dosi, suffragata anche dalle attendibili pagine del diario personale dell’infermiera-amante del Poeta (Emilie Mazoyer, detta Aélis), non è però avallata unanimemente dalla critica. A tal riguardo, non è ritenuto probante nemmeno il fatto che D’Annunzio, da quel giorno, abbia allontanato Luisa dal proprio talamo (evenienza spiegabile sia con la castrante gelosia della donna, sia con la necessità impellente del Vate di soddisfare i propri pruriti con sempre nuove «badesse di passaggio»). C’è chi sostiene che un ruolo decisivo in questa vicenda abbia la cocaina, di cui D’Annunzio fa largo uso (almeno, dai tempi di Fiume); la caduta sarebbe quindi da imputare alla perdita dell’inibizione e del senso del pericolo da tossicodipendenza. Oppure, si è pensato che l’incidente si sia verificato in seguito a un capogiro da vertigini. Ma queste due ipotesi convincono fino a un certo punto, avendo il Comandante tanta dimestichezza sia con la droga sia (a seguito dei numerosi e pericolosi voli effettuati) con l’altezza.
C’è di più. Uno dei medici che accorrono per salvare la vita al precipitato, Antonio Duse, pur avendo stilato un referto che parla di «segni manifesti di frattura della base del cranio estesa all’orbita destra», non rivela mai l’entità della lesione. E André Doderet, traduttore francese di D’Annunzio, riferendo di un incontro avuto col Vate a Gardone il 5 settembre, dunque a solo una ventina di giorni dall’accaduto, afferma che egli non reca segni di ferite o contusioni. L’evenienza è davvero molto strana, soprattutto considerando la calvizie di D’Annunzio, che avrebbe dovuto rendere evidente qualunque traccia cicatriziale, e diventa incomprensibile se è vero che, come scrive Ojetti sul «Corriere della sera», dopo l’impatto il Poeta presentava «la metà del volto nera, rantolava e sangue e materia cerebrale gli colava giù dal naso».
Insomma, i tasselli sembrano incastrarsi solamente supponendo che, pentitosi di aver dato appuntamento a Cagoja e al capo delle «camicie sordide», D’Annunzio abbia inscenato un incidente per sottrarsi a quell’impegno divenuto, chissà perché, sgradito. In quest’ottica, troverebbero una collocazione anche il silenzio (protettivo) di Gabriele e quello di Luisa sulla faccenda, la distruzione dell’epistolario fra lei e il Vate relativo a quel periodo, la difesa a spada tratta della donna e le continue attenzioni a lei da parte di D’Annunzio, che dirà sempre di amarla.
Resta il fatto che la caduta del Comandante sancisce la sua forse preterintenzionale, ma definitiva estromissione dalla scena politica, ratificata quasi mestamente da Nitti che, l’abbiamo visto, ricorda quel mancato incontro con toni di rimpianto neanche tanto velati.
Certo, è facile cogliere l’ironia di tutta questa vicenda: un uomo azzimato che, per anni e fino a dieci giorni prima, ha arringato le folle dai balconi dei palazzi più importanti d’Italia, cessa ingloriosamente la sua attività politica proprio per via di un goffo capitombolo dal balcone, mentre è in ciabatte. D’Annunzio stesso ne parlerà in toni più o meno giocosi, ad esempio definendo aulicamente la caduta il “volo dell’Arcangelo” o affermando che «L’Italia mi ha spinto dalla Rupe Tarpea». L’evento, che lascia più domande in sospeso di quanti dubbi sciolga, si staglia però nella cultura italiana quale esempio fulgido di come, per il Vate, la propria vita possa diventare letteratura finissima, al di là della prosaicità dei fatti in sé. D’Annunzio, infatti, dà una piega poetica al suo ‘volo’ nel Libro segreto, un’autobiografia dal sapore agiografico in cui si raffigura altissimamente e predestinato a cose sublimi. Qui, la caduta, che nella finzione letteraria è narrata da Angelo Cocles (un alter ego del Poeta, anch’egli ànghelos, ‘nunzio’ come l’Arcangelo Gabriele, e cocles, ‘orbo’ dal 1916), è rappresentata come un tentato suicidio, topicamente un gesto magnanimo.
Ora, per quanto le opere dannunziane siano notoriamente impregnate di autobiografismo, è difficile credere che proprio in questa sua ultima fatica letteraria l’autore precipitato abbia detto tutta la verità su quella caduta. E ciò, se non altro, perché sui fatti il Poeta ha sempre mantenuto e imposto il più claustrale silenzio a tutti, al punto che neanche il fido portavoce e biografo Antongini ne parla o scrive apertamente: come pensare allora che, dopo tredici anni di totale riserbo, D’Annunzio abbia deciso di spiattellare tutto, per di più in un’opera letteraria che giunge in un periodo di inaridimento poetico e (tanto per cambiare) di necessità materiale? Più probabile, invece, che il sagacissimo promotore di sé, che già a 16 anni diramava la notizia della propria morte per pubblicizzare la silloge Primo vere, abbia pensato di ricamare su quell’evento oscuro.
Il racconto del Libro segreto, quindi, da un lato colma meravigliosamente il tabù biografico, consegnato ai posteri quale culmine memorabile di una memorabile vita, fra l’altro in uno stile che, pur anticipando la cripticità della poesia contemporanea, nulla perde di quella ostentata raffinatezza che è la tipica cifra dannunziana. Dall’altro, il coup de théâtre del tentato suicidio raccontato da Angelo Cocles, oltre a rendere più accattivante la realtà storica, conferisce un taglio sacro e classicamente sapienziale alla figura del notoriamente mondano Poeta-amante: tale raffigurazione idealizzata, infatti, colora un libidinoso e ormai non più gagliardo anziano di una malinconica e fresca solennità, forse stridente ma, proprio per questo, ancora più ammaliante (quale la recente interpretazione cinematografica di Castellitto ha saputo impersonare).
di Lelio Camassa