Il destino infelice dell’eroe
“La cetra di Achille”
Il fato, quella necessità suprema e ineluttabile, quel potere misterioso e incontrastato, risulta centrale, imprescindibile, da quelle che sono le sorti dei grandi eroi che fin dall’epica classica popolano la letteratura del mondo intero.
Parlando di grandi figure eroiche nel mio immaginario si collocano nell’immediato quelli che sono i grandi protagonisti dell’epica omerica, icone, a mio avviso, paradigmatiche dei meccanismi del fato e del destino.
Occorre tenere presente che nel mondo arcaico descritto da Omero tutto è predestinato dal Fato, gli stessi dei non posso nulla contro di esso. E’ possibile dunque operare con libera scelta, ma con la consapevolezza di un destino già segnato. Tutti gli uomini devono vivere seguendo il destino scelto dal Fato, non è dunque scelta degli uomini quando morire, bensì come farlo.
È in questa determinata ottica che opera la lirica di Pascoli. Egli compone La cetra di Achille, il terzo dei Poemi Conviviali composti tra il 1904 ed il 1905, che traggono ispirazione da figure ed episodi del mito.
Ne La cetra di Achille il poeta, utilizzando un linguaggio ricercatissimo e classico che si avvicina alla solennità dell’epica, descrive quella che viene percepita da tutti come l’ultima notte del mitico eroe.
Il poema si apre con la descrizione di un notturno; gli Achei accampati sotto le mura di Ilio riposano, domati da quello che viene definito dall’autore come un “molle sonno” (riprendendo un termine già utilizzato nella traduzione ottocentesca di Vittorio Monti).
Uno solo tra i combattenti Greci non riposa, è Achille, che veglia assorto dedicandosi a suonare la cetra in onore dei “morti eroi”. Egli rimane sveglio nell’ultima notte della sua breve vita, quella che, com’era destino secondo la profezia di Teti, avrebbe avuto fine dopo la morte dell’antagonista Ettore.
Mentre suona dunque riceve la visita di una figura che si rivela essere infine un anziano aedo. Egli chiede ad Achille di porgli la cetra, in cambio l’eroe riceverà “parole alate”. Le parole dell’aedo tentano di rincuorare il giovane Achille, lo invitano a seguire e compiere il proprio destino eroico, cioè a inseguire la morte con l’animo sereno e forte di chi conosce e ha scelto tale sorte.
Una volta scomparsa questa enigmatica figura Achille, non essendo più distratto dal suono da lui stesso prodotto attraverso la cetra, si rende conto delle voci presenti tutt’attorno a lui a compiangerlo fin dall’inizio, come le Nereidi ad esempio.
Infine incontra Briseide, e stretto a lei attende l’aurora.
Pascoli compie la sua rivisitazione dell’eroe ponendo l’accento su due aspetti fondamentali, il pianto dell’eroe e la sua solitudine. L’eroismo di cui tratta il poeta quindi non è quello della forza trionfale, bensì quello del rimettersi al proprio destino e nel precipitare con consapevolezza verso il suo termine.
Sono questi aspetti tipici di una visione lontana dagli schemi a cui siamo abituati.
Achille, eroe per eccellenza, piange e si dispera, invoca l’aiuto della madre, tutti elementi che secondo uno schema contemporaneo, piuttosto che ottocentesco, avrebbero certamente minato l’indiscutibile virilità e imponenza della figura dell’eroe stesso.
Gli eroi vivono per compiere gesta gloriose in battaglia che assicurano loro il ricordo da parte dei posteri. Una morte precoce può essere l’anticamera per una fama duratura. La condizione dell’eroe è tutt’altro che felice: egli è infatti sottomesso completamente al volere degli dei ma soprattutto del fato, e talvolta giace inerme nell’oblio della disperazione dettata dalle sue stesse scelte.