Il dono di saper vivere
di Tommaso Pincio
Il dono di saper vivere di Tommaso Pincio, edito da Einaudi, è un libro interattivo per la sua capacità di coinvolgere il lettore in un gioco di fili narrativi da sbrogliare e da interpretare, da contestualizzare all’interno di un pittoresco mosaico letterario dove ogni cosa trova il suo posto nell’ordine generale dell’opera. Pincio, in questo senso, è sia scrittore che pittore perché scrive dipingendo con chiarezza ogni pagina del libro; quando il lettore, per esempio, si imbatte nelle digressioni artistiche sul Caravaggio non può che rimanerne affascinato. Il dono di saper vivere è quindi un libro su Caravaggio? Non proprio, e non è nemmeno solo un romanzo autobiografico; infatti la vita del Gran Balordo attraverso le ricostruzioni di Pincio e la vita dell’autore stesso trovano ugualmente spazio all’interno del libro, quasi compenetrandosi. A queste due dimensioni narrative, se ne può aggiungere poi una terza, che conferisce al romanzo un vorticoso senso di tridimensionalità: è la dimensione che coinvolge il lettore stesso, quella in cui Pincio parla delle emozioni umane, aprendo così un canale di comunicazione diretto con il suo pubblico, rendendo concreto l’assunto quasi profetico di Proust secondo il quale ogni lettore quando legge, legge se stesso.
Recensire il libro di Pincio, come si sarà potuto intuire dall’introduzione è tutt’altro che semplice; mi si è posto quindi il problema di come iniziare. Dividerlo in parti dedicando a ciascuna l’approfondimento che si merita, ho pensato fosse la cosa migliore. Le sezioni che compongono il romanzo sono tre.
Il dono di saper vivere si apre con il monologo di un uomo in carcere che parla con gli “odiati muri” della sua cella. Perché è in carcere? Non ci è dato saperlo, Pincio ci suggerisce solo, fin da subito, che l’uomo era in una condizione di prigionia ben prima che si trovasse in galera. Attraversando la prima sezione del romanzo, arriviamo quindi a istituire un parallelismo tra l’attuale reclusione del personaggio e la sua passata esperienza in una galleria d’arte moderna, di proprietà di un carismatico mercante d’arte soprannominato ironicamente l’Inestinto. La necessità di vedere un telefax per lavoro ( il primo lavoro del nostro personaggio) lo porta in questa misteriosa galleria d’arte dove sarà costretto a lavorare per molti, troppi anni.
Una Y può sintetizzare perfettamente la prima sezione del romanzo. La Y è intesa dall’autore rappresentare il concetto di bivio, concetto che permea l’esistenza di ogni individuo; tutta la nostra vita è infatti una questione di scelte per le quali vale l’eterno principio di non contraddizione aristotelico: scegliere una strada e, quindi, allo stesso tempo, escludere l’altra. Scegliere la strada giusta, quella che ci avvicina sempre di più alla nostra realizzazione, sembra essere appannaggio di chi possiede Il dono di saper vivere. Ma per Pincio, la questione non può essere posta in questi termini così semplici e il prosieguo del romanzo ce lo dimostrerà. Ho precedentemente accennato che il protagonista della prima sezione del romanzo vive la sua vita in uno stato di prigionia; questa prigionia può essere vista come espressione della sua incapacità di realizzarsi pienamente perché non riesce a essere un animale sociale camaleontico in grado di assumere i connotati di cui la società ha bisogno, non riesce quindi a “vendere” la sua persona così come non riesce a vendere i quadri nella galleria dove lavora: non è un mercante d’arte e sembra non essere neppure l’artista che avrebbe voluto essere. Chi è allora? Su questa domanda che lascerò sospesa, si apre la seconda parte del romanzo intitolata La maledizione di dover raccontare: il bivio di cui Pincio scriveva, il lettore lo incontra poche pagine dopo, e in questa seconda sezione, gli azzardi letterari dell’autore sono tanto arditi quanto azzeccati, gli strumenti dell’ispirazione letteraria vengono rivelati; ecco che il prestigiatore spiega come ha tirato fuori il coniglio dal cilindro.
A quel punto gli attori smettono di essere personaggi e si voltano verso la voce che ora si lamenta per come recitavano. Nel frattempo la macchina da presa è indietreggiata rivelando la finzione del set, il formicaio impazzito che gli si agita intorno.
Dove ci porta Pincio è dietro le quinte della sua opera letteraria e gli attrezzi del mestiere che troviamo sono assolutamente affascinanti. Anzitutto l’influenza postmodernista perfettamente integrata all’interno del romanzo, che non ha per niente il sapore dell’affettazione ma consente al libro di scorrere perfettamente coinvolgendo il lettore in ogni labirintica digressione di Pincio. Il bivio nel quale il romanzo si biforca introduce e approfondisce anche il tema del doppio che trova la sua assoluta originalità nei parallelismi e nelle ricostruzioni delle opere di Caravaggio, perché è il grandissimo pittore maledetto che infiamma la narrazione consentendo a Pincio di parlare di arte, vita e maledizione. Questo trio è indissolubile nella vita di Caravaggio e, attraverso le parole e gli scritti di storici dell’arte dell’epoca e non (da Berenson a Baglione) Pincio scava nella vita di Caravaggio cercando qualcosa che si avvicini il più possibile alla verità cercando forse di smentire o, perché no, di confermare, la lapidaria osservazione di Baglione secondo cui Caravaggio
morì malamente, come appunto male havea vivuto
La terza parte del romanzo è quella maggiormente dedicata a Caravaggio. Dalla complessa matassa qual è la vita di Caravaggio, Pincio sbroglia quattro fili, quello del denaro, della morte, della malinconia e dello specchio e ricostruisce con meticolosa cura vita opere e pittura del Gran Balordo. Il romanzo si infittisce ancor di più di incorporazioni di frammenti di testi diversi e usando un’ampia bibliografia che si avvale dei giudizi critici di Roberto Longhi, Berenson, Burckhardt, Pincio reinterpreta e analizza alcuni dei suoi quadri più famosi, contestualizza la sua pittura in un contesto artistico ben preciso e racconta la storia di Caravaggio, accostandola alla sua; man mano che si procede con la lettura del romanzo, si capisce che le esperienze del Caravaggio possono essere chiavi per interpretare momenti di vita dell’autore stesso. Così Pincio confessa che il suo pseudonimo in gioventù era Melancolia, perché così simile al Bacchino Malato dipinto dal Caravaggio. Ma ciò che il pittore dipinge nei suoi quadri, era ben lontano dall’essere malinconico e le rapide e precise digressioni di Pincio ce lo dimostrano, digressioni che inseriscono Caravaggio in un momento storico ben preciso ,che ci permettono di approfondire i caratteri della sua opera e anche gli straordinari elementi di rottura con la tradizione. Mi sento di dire che rapidità, precisione e invenzione, sono la triade che regge tutto il racconto multiforme,caleidoscopico e caravaggesco che Pincio imbastisce; riesce infatti, rapidamente, senza che la narrazione ne risenta, a passare da una riflessione sulla sua infanzia, a una digressione sul Caravaggio, da una fotografia patinata di una star, alla Vocazione di San Matteo, bellissimo quadro di Caravaggio che Pincio osserva minuziosamente, da vicino, così da vicino da darci la sensazione di essere davanti al quadro, e che il libro in realtà sia l’accesso per una stupenda galleria d’arte, tutta pittura e letteratura, e che l’autore del libro sia il curatore del museo. Le descrizioni dei quadri sono così belle da essere quasi struggenti, raccontano qualcosa di molto profondo dell’arte di Caravaggio, qualcosa di umano, oscuro e malato, e questa umanità così inferma, che procede a tentoni cercando un suo equilibrio nel mondo, si palesa anche negli innesti letterari nel romanzo di autori come Buzzati e il filosofo Ficino, così lontani eppure così vicini nelle pagine del libro, perchè Pincio li usa per far riflettere, per scalfire il lettore, per metterlo in crisi.
Tutte le volte che ce ne stiamo in ozio ci sentiamo tristi come se fossimo in esilio” scriveva Marsilio Ficino, il filosofo toscano che della malinconia è stato il principale redentore. Alla tristezza dell’esilio rispondiamo fuggendo la solitudine,convinti di poterla scacciare tramite il commercio con gli altri uomini e per mezzo della varietà degli svaghi. […] Nel bel mezzo dei divertimenti spesso sospiriamo, e alla fine della festa ce ne andiamo più tristi di come eravamo venuti.
Ma incorporazione di bibliografie critiche, riflessioni di filosofi e scrittori, digressioni sulla vita e quadri del Caravaggio, come possono integrarsi in un sistema che risponda alla domanda qual è il dono di saper vivere? Non c’è una risposta che ci dica come acquisire o cosa sia questo dono essenziale per ogni uomo, Pincio non apre alcuno scrigno rivelando al suo interno fortune e ricchezze facili da acquisire, ed è proprio questo che dà spessore al libro, un libro che chiede di cercare i suoi significati più sfuggenti leggendoli tra le righe, perché quello che l’autore scrive altro non è che la sua vita, racconta la sconfitta e poi la rivincitache può attendere molto tempo prima di arrivare, ma prima o poi, quando trova il mezzo giusto per iniziare a muoversi, si avvia inarrestabile verso la vittoria e il riscatto; racconta la debolezza e la solitudine di uomini che cercano di inserirsi nell’ordine del mondo cercando di fare quello che viene loro meglio: chi vendere se stesso, chi raccontarsi dentro un libro; racconta di Caravaggio e delle banconote da centomila lire su cui era raffigurato un suo celebre quadro, chiamando all’attenzione del lettore una sagace contraddizione, e confessa che, secondo lui, tutta la vita è un bivio continuo, che scegliere è inevitabile, soprattutto per chi, ad un certo punto, si trova a vivere una vita che non gli appartiene. Il dono di saper vivere giace come verità tra le righe di questo romanzo che riesce ad essere tante cose: libro sull’arte, sulla vita, sull’uomo, complesso e semplice, lineare e labirintico, piacevole ma anche frustrante perché, per fortuna, è un libro che comunica l’idea che calarsi nella vita e accettare ciò che siamo è il dono di saper vivere, ma riuscire a farlo è un percorso che passa attraverso tante esperienze, attraverso numerosi bivi. L’arte ci dice che le bussole per orientarci ci sono, è ovvio che il Nord non è però lo stesso per tutti. E questo, secondo me, il libro di Pincio lo conferma.