La sventurata rispose
breve commento alla descrizione manzoniana della monaca di Monza
Gertrude, la monaca di Monza, fa la sua comparsa nel corso del nono capitolo del romanzo manzoniano. Personaggio straordinario, emblema della tragedia dell’incomprensione, è la controparte finzionale sviluppata sapientemente a partire dalle vicende biografiche di Marianna de Leyva, Suor Virginia Maria, che prende i voti a sedici anni, costretta dal padre, il conte di Monza Martino de Leyva y de la Cueva-Cabrera. Gertrude è l’immagine della monacazione forzata, è una cosiddetta “malmonacata” e il suo percorso è il risultato di una violenza. Manzoni sfrutta un topos della letteratura europea tra quindicesimo e diciassettesimo secolo, introducendo questa giovane donna aggravata da una vocazione insussistente e dall’intrinseca carica di ambivalenza.
Ancor prima che l’incontro con la monaca avvenga effettivamente, l’atmosfera narrativa si intensifica aggravando d’inquietudine il cammino che conduce Agnese e Lucia da Gertrude. Finalmente, le due, in fuga, arrivano al monastero delle suore benedettine di Santa Margherita, in questo luogo intendono chiedere pietà e rifugio per la giovane ragazza.
Lucia, che non aveva mai visto un monastero, quando fu nel parlatorio, guardò in giro dove fosse la signora a cui fare il suo inchino, e, non iscorgendo persona, stava come incantata; […] vide una finestra d’una forma singolare, con due grosse fitte grate di ferro, distanti l’una dall’altra un palmo; e dietro quella una monaca ritta.
Lucia si trova in uno stato di agitata sospensione, il suo sguardo incantato vaga alla ricerca di questa strana figura apparentemente salvifica e finalmente questa appare. Non arriva di fronte alla giovane smarrita, ma si palesa, sola e autorevole, inaspettatamente incorniciata dietro a una finestra serrata da massicce grate di ferro.
A questo punto della narrazione Manzoni offre una delle descrizioni più celebri e raffinate della storia letteraria del nostro paese.
Il suo aspetto, che poteva dimostrar venticinque anni, faceva a prima vista un’impressione di bellezza, ma d’una bellezza sbattuta, sfiorita e, direi quasi, scomposta.
La descrizione esteriore della monaca è preludio del suo ritratto morale. Il dramma di Gertrude è già visibile nella sua bellezza, decadente e compromessa. Manzoni prepara il lettore, nessun dettaglio appare fine a sé stesso, tutti gli elementi occorrono a rivelare il passato drammatico della giovane donna e nell’esteriorità della figura si coglieranno gli elementi necessari all’evocazione alla sua storia personale.
Un velo nero, sospeso e stirato orizzontalmente sulla testa, cadeva dalle due parti, discosto alquanto dal viso; sotto il velo, una bianchissima benda di lino cingeva, fino al mezzo, una fronte di diversa, ma non d’inferiore bianchezza; un’altra benda a pieghe circondava il viso, e terminava sotto il mento in un soggolo, che si stendeva alquanto sul petto, a coprire lo scollo d’un nero saio.
Il bianco e il nero si armonizzano come elementi di cornice e la figura nel suo complesso inizia a delinearsi con più chiarezza. Il bilanciato gioco di contrasti sembra un’elegante astuzia stilistica attraverso la quale Manzoni prelude alla caratteristica incoerenza connaturata in Gertrude.
Ma quella fronte si raggrinzava spesso, come per una contrazione dolorosa; e allora due sopraccigli neri si ravvicinavano, con un rapido movimento. Due occhi, neri neri anch’essi, si fissavano talora in viso alle persone, con un’investigazione superba; talora si chinavano in fretta, come per cercare un nascondiglio; in certi momenti, un attento osservatore avrebbe argomentato che chiedessero affetto, corrispondenza, pietà; altre volte avrebbe creduto coglierci la rivelazione istantanea d’un odio inveterato e compresso, un non so che di minaccioso e di feroce: quando restavano immobili e fissi senza attenzione, chi ci avrebbe immaginata una svogliatezza orgogliosa, chi avrebbe potuto sospettarci il travaglio d’un pensiero nascosto, d’una preoccupazione familiare all’animo, e più forte su quello che gli oggetti circostanti.
Largo spazio viene concesso ai movimenti degli occhi della monaca. La sua mimica è eloquente: lo sguardo della sventurata è inquieto, celato da un’imperscrutabile alterigia e agitato da un’intima preoccupazione che governa le traiettorie visive. Sublime la scelta stilistica del rigo “Due occhi, neri neri anch’essi”, come posto in evidenza da Momigliano, l’insistenza sul “due”, che la logica direbbe inutile, rivela invece la forza drammatica della frase e suggella un periodo di ineguagliabile bellezza e sapienza.
Una paura inconfessabile domina Gertrude, il ruolo che ricopre, tutto ciò che le resta, è minacciato dalle torbide confessioni imprigionate nell’apparenza, per questo la fronte si raggrinza e le sopracciglia tendono all’incontro in una contrattura dolorosa. Come sappiamo la natura stessa del ruolo di questo personaggio nel romanzo è duplice. Gertrude infatti accoglie Lucia e la aiuta a trovare asilo durante la sua fuga, ma in seguito la tradisce, a causa della sua relazione clandestina con Egidio.
Le gote pallidissime scendevano con un contorno delicato e grazioso, ma alterato e reso mancante da una lenta estenuazione. Le labbra, quantunque appena tinte d’un roseo sbiadito, pure, spiccavano in quel pallore: i loro moti erano, come quelli degli occhi, subitanei, vivi pieni d’espressione e di mistero.
Due semplici aggettivi sono sufficienti a rendere la dolcezza dei lineamenti della giovane monaca nel fiore dei suoi anni. Le gote e le labbra, il colorito alabastrino della carnagione, entrano in diretto contrasto con le linee nere calcate dalla descrizione nelle righe precedenti. Le labbra, come gli occhi, irrequiete amministrano la mimica del volto che tradisce inconfessabili segreti.
In fine, Manzoni apre lo sguardo e presenta al lettore l’intera figura della monaca.
La grandezza ben formata della persona scompariva in un certo abbandono del portamento, o compariva sfigurata in certe mosse repentine, irregolari e troppo risolute per una donna, non che per una monaca. Nel vestire stesso c’era qua e là qualcosa di studiato o di negletto, che annunziava una monaca singolare: la vita era attillata con una certa cura secolaresca, e dalla benda usciva sur una tempia una ciocchettina di neri capelli; cosa che dimostrava o dimenticanza o disprezzo della regola che prescriveva di tenerli sempre corti, da quando erano stati tagliati, nella cerimonia solenne del vestimento.
L’autore mostra alcuni dettagli che sembrano disserrare la natura della monaca. Molto sottilmente, dichiara di non conoscere il grado di intenzionalità delle azioni della giovane: l’abito monacale stretto in vita sembrerebbe denunciare una privata vocazione mondana, l’aspetto di Gertrude tradisce le sue recondite velleità e basterebbe quella sola ciocca di capelli scuri che sfugge dal velo, riversata sulla tempia, a rivelare il vigore e la fragilità di un personaggio, l’incontrollata carica sovversiva nella sua interezza e tutta la potenza narrativa del Manzoni.