La vitrea virgo: riflessioni su un carmen e sul latino di Pascoli
La dilagante concezione di Pascoli quale cantore delle piccole cose, dei morti e del fanciullino ha una storia lunga all’incirca quanto quella della critica pascoliana in sé, che comincia con un saggio di Benedetto Croce del 1907; dopo un’iniziale allusione topicamente modesta a «la mia insufficienza [di Croce lettore]» e, più pungentemente, a «quella del poeta», districandosi nei vari giudizi caustici e ironici del critico, si leggono queste parole sulle prime Myricae:
il meglio dell’arte del Pascoli è nella riduzione a frammenti, nel suo sciogliersi degli elementi costitutivi. Di frammenti stupendi sono conteste anche le poesie che abbiam ricordate e criticate come deficienti di fusione e di armonia: solo che nel contesto artificioso perdono la loro naturale virtù.
Non contento, a proposito dei Poemi conviviali, un «capolavoro di cultura umanistica», Croce aggiunge che «sorprende un’aria di compostezza, una facilità e egualità d’intonazione, onde par di avere innanzi un altro individuo», tacciando questo poeta, che «non è un pensatore» e nemmeno «un dotto», di una sorta di schizofrenia, accusandolo infine di avere «qualcosa di antiquato rispetto al modo moderno della filologia». Ipse dixit, come dimostra l’inveterato giudizio su Pascoli ancora impregnante i nostri libri scolastici e, di riflesso, il nostro immaginario.
La polemica suscitata da Croce contro Pascoli impegna i due contendenti a lungo e solo di recente il giudizio sul poeta sembra aver raggiunto un maggiore equilibrio. Persiste tuttavia la malsana consuetudine di obliterare quasi del tutto l’«altro individuo» di cui parla Croce, ossia il Pascoli latino, a cui i testi dedicano qualche riga smilza e che, invece, ha raggiunto vette di eccellenza poetica ineguagliate nella storia della letteratura contemporanea. Il problema, ovviamente, secondo Alfonso Traina scaturisce da quei «primi critici, i più antichi e numerosi», che ingabbiano Pascoli nell’alveo della sola lirica in italiano, dacché la lingua latina, come proprio questi studiosi sostengono, «mal giova al Pascoli, ed immobilizza la sua fantasia in un quietismo oggettivo», o ancora perché il poeta «non poteva sciogliere il duro latino, ormai fissato nella morte, in quella mollezza analitica che la sua poesia richiedeva».
Verrebbe da chiedersi se questi critici abbiano anche solo provato a leggere e intendere un carmen pascoliano, come sicuramente ha fatto invece Flora, che afferma: «La poesia latina del Pascoli […] ha la medesima sostanza umana ed artistica di quella in lingua italiana: ha cioè lo stesso linguaggio nell’essenza della parola e delle immagini». Ed è ciò che difatti si riscontra, almeno a livello tematico e di atmosfera, in un componimento latino intitolato Crepereia Tryphaena, attraverso il quale forse si può riconsiderare il poeta pluripremiato vincitore del Certamen Hoeufftianum di Amsterdam di poesia in latino.
La storia di questo carmen è tanto intrigante quanto denso di tenerezza è il suo contenuto. Durante i lavori dei disterri del nuovo Palazzo di Giustizia, nell’area dei prati di Castello a Roma, il 10 maggio 1889 vengono scoperti due sarcofagi databili al II secolo; uno porta inciso il nome CREPEREIA TRYPHAENA e reca effigiata una scena di compianto funebre, con una bimbetta distesa sul letto, ai piedi della quale si lamenta una donna velata e, al capezzale, una figura maschile con il mantello del tempo, il clamide. Il corredo funerario di Crepereia, probabilmente figlia di un liberto agiato, rivela l’età infantile della defunta, sepolta anche con una pupa (una bamboletta snodabile) e un anello pregiato su cui è inscritto a rilievo FILETVS, forse il nome comune con cui si designava all’epoca il futuro marito. Ma non commuove solo la tragica storia della fanciulla che non ha potuto adempire ai voti nuziali; infatti, la relazione dell’archeologo Rodolfo Lanciani, che apre il sarcofago di Crepereia in cui nei secoli si è instillata dell’acqua, svela un particolare ancora più toccante:
Tolto il coperchio e lanciato lo sguardo sul cadavere attraverso il cristallo dell’acqua limpida e fresca, fummo stranamente sorpresi dall’aspetto del teschio, che ne appariva tuttora coperto da folta e lunga capigliatura ondeggiante nell’acqua […].
La meraviglia della chioma del corpo scarnificato si spiega facilmente con l’abbarbicamento, alle ossa del cranio, dei bulbi di un tipo di felce color ebano, l’adianto o capelvenere, ma è facile immaginare l’eco e la meraviglia di questa scoperta presso i contemporanei, testimoniata dalle parole dello stesso Lanciani.
Pascoli, con ogni probabilità, legge la relazione dell’archeologo quando, nel 1893, scrive le sedici strofe saffiche del suo carmen ispirato a Crepereia, alla «vitrea virgo», la vergine di vetro che si nascondeva sott’acqua. È proprio la vista dell’incredibile capigliatura della pronuba che innesca la magia: l’io del poeta è come destabilizzato da quei «crini» disciolti, che avrebbero dovuto essere legati, un po’ come (maliziosamente) le vesti prima della prima notte di nozze, e che invece sono disciolti, forse, per mano della «notte opaca» che l’ha avvolta così a lungo, di certo non per mano del promesso sposo. Alla vista di quei lunghi capelli ondeggianti l’io non resiste, avverte gli occhi inumidirsi, sente «antiche lacrime» scendergli sul viso e non riesce a capirne la causa; nel profondo di sé, pulsa e si agita e soffre come un «altro cuore», che gli sobilla il pianto.
Quasi valicando misticamente i limiti del tempo, ora l’io percepisce, ben distinta, la corona di mirto che, nel giorno delle nozze, al tempo degli Antonini si appendeva dietro la porta degli sposi e, ancora, ha sotto gli occhi lo splendido ametista con l’effigie del grifone e di una cerva e la pupa, quei giocattoli il cui sacrificio a Venere avrebbe significato la fine dell’infanzia sugellata dal matrimonio: la sepoltura di Crepereia è avvenuta poco prima, sotto il suo sguardo affranto. In onore delle anime dei defunti, fra cui quella della sua mancata sposa, l’io afferma di voler compiere il giorno seguente, mentre cammina a piedi nudi nelle «sacre tenebre» dei morti, il consueto rito del lancio delle fave nere dietro le spalle, a metà fra lo scongiuro e la reverenza, nel silenzio più totale del mondo e della natura; la morta lo seguirà, come da consuetudine, raccogliendo le fave con la «mano esangue». Ma il dolore ingenerato da questa ritualità sarà intollerabile, e l’io, che per restare in vita dovrebbe suonare un tinnulo bronzeo per evitare che le ombre incalzanti lo inghiottiscano, avvisa che sceglierà di voltarsi, novello Orfeo, e di non colpire la campanella, ansioso di morire a sua volta.
È la fantasia di un promesso sposo disperato, che, svanito il velo della visione futura, si ritrova disperato e piangente sulla fanciulla deceduta, il cui capo è reclino sul lato sinistro e incorniciato dai bei crini neri; e intanto si avvicinano il mesto suono di un flauto d’auleta e il lamento della prefica, che presagiscono il saluto definitivo a Crepereia. Il corteo funebre si avvia lungo le sponde tiberine, fra i bianchi corimbi, sotto i raggi vespertini color del fuoco, e, quando giunge nel luogo deputato alla sepoltura, l’io, «disperato», compie gli ultimi, solenni uffici e saluta la piccola: «Have have, Tryphaena». La mole Adriana si staglia all’orizzonte, indorata dalla luce rossa del pomeriggio, e il corteo si è accomiatato dalla defunta; l’io è già lontano, quasi in un’estasi mesta che lo rapisce attraverso un «che di inane» e che lo aliena da quel che lo attornia, da quel «cuore silenzioso», ormai. E vaga, in uno stordimento totale, in uno spaesamento definitivo, sordo persino alla voce della madre di Crepereia, che inutilmente lo chiama per nome: «Fileto!».
Se un riassunto non può rendere le sfumature di un testo poetico, tantomeno può farlo una sinossi in una lingua diversa da quella della lirica originaria, di cui rischia di banalizzare le sfumature, le sensazioni e, in definitiva, i sensi. Conta qui, però, cogliere l’essenza dell’arte poetica sottesa a un componimento del genere, a partire dalla strategia narrativa tipica di molti carmina pascoliani, ossia il procedimento di metempsicosi che porta all’identificazione del poeta con lo sposo mancato di Crepereia, quel Fileto nominato solo nell’ultimo verso: è una scelta narrativo-espressiva che non si può ridurre a un attimo di epifanica rivelazione da riversare in una lingua disusata, solamente per un gusto umanistico (peraltro fuori tempo massimo), come avrebbero voluto Croce e i crociani. Si tratta, bensì, della spia di una sensazione più profonda, che trascende il naturale trasporto che qualunque individuo dotato di un minimo di sensibilità, per non parlare di una sensibilità radicale come quella di Pascoli, avrebbe potuto provare dinanzi a un ritrovamento archeologico tale e a una storia così appassionante come quella di Crepereia: un sentimento di totale compenetrazione con l’essere umano, e quindi con la sua storia e le sue forze e debolezze, travalicante i secoli e riducente ad unum le dissipate e sparpagliate esperienze singolari.
È una ineffabile percezione di continuità, resa evidente e rafforzata dal fatto che il dolore per la perdita di una persona cara affligge esseri lontani nel tempo circa diciotto secoli, come Fileto vedovo di Crepereia e Giovannino orfano del padre. In questa inesplicabile convergenza, il latino, se da un lato appare come il segno esteriore di questa perpetuità, dall’altro è il vettore che coniuga e accomuna e unifica queste emozioni, a un livello più intimo e oltre la voragine del tempo, con la sua carica espressiva inesausta e con la prepotente aura di rispettabilità che è in grado di evocare.
Per Pascoli, chiacchierato per le pretenziose indagini psichiatriche, fondate sui testi letterari e che lo vorrebbero vittima di un edipo irrisolto, e per certe letture basate sul maledettismo a tutti i costi, bisognerebbe che il ruolo di strenuo difensore del latino, forse una delle più autentiche cifre distintive del poeta, sia maggiormente considerato nel più complesso quadro della sua attività poetica; e questo non solo perché a dirlo, tra le righe, è Traina, che al Pascoli latino ha dedicato un appassionato studio ormai diventato un classico.
Ci sono ragioni, se possibile, ancora più valide, che il carmen di Crepereia ha aiutato a portare alla luce: il valore eternante delle lingue antiche, la percezione dell’essere umano attraverso i secoli, quindi la sua vittoria sulla morte. Pascoli, fra l’altro, ha ottimi argomenti contro la tumulazione scolastica e culturale delle lingue classiche, come si legge ad esempio nei Pensieri scolastici: «Lingua morta! Letterature antiche! Dov’è la lingua che non possa dirsi morta o morente? Ogni, non solo scrivente ma parlante, tende a usare le parole del fondo comune in un modo suo proprio. […] Dov’è il presente di una lingua? Panta rei».
E ancora, in una sua prosa dove immagina di rivolgere una domanda al primo vincitore del Certamen Hoeufftianum (Diego Vitrioli), per bocca del canuto e autorevole poeta, alludendo al latino, Pascoli asserisce: «Dici che io rinnego il presente per il passato e che non voglio essere dei miei tempi. Oh! Bada. La mia idea è questa. L’uomo combatte continuamente contro la morte. Esso alla morte deve disputare, contrastare, ritogliere quanto può. La nostra vita è gelida e noi abbiamo bisogno di calore; la nostra vita è oscura e noi abbiamo bisogno di luce: non si lasci spegner nulla di ciò che può dar luce e calore: una favilla può ridestare la fiamma e la gioia! Non si lasci morir nulla di ciò che fu bello e giocondo». Ed è davvero qui che, serenamente e con i migliori auspici per il presente, si può chiosare (o sperare): ipse dixit.
Bibliografia
R. Lanciani, A. Castellani, Delle scoperte avvenute nei disterri del nuovo Palazzo di Giustizia, in«Bullettino della Commissione Archeologica Comunale di Roma», VII/4 (aprile 1889), pp. 173-180.
G. Pascoli, Prose, I, Milanto, Mondadori, 1971.
G. Pascoli, Tutte le poesie, a cura di A. Colasanti, Roma, Newton Compton, 2006.
M. Pazzaglia, Pascoli, Roma, Salerno editrice, 2002.
C. Pisani, Filologia e poesia tra Pascoli e D’Annunzio, Venezia, Marsilio, 2010.
F. Sensini, Pascoli maledetto, Genova, il melangolo, 2020.
A. Traina, Il latino del Pascoli. Saggio sul bilinguismo poetico, Bologna, Pàtron, 2006.