L’affare Mayerling
di Bernard Quiriny
“L’affare Mayerling” di Bernard Quiriny è il libro più recente dello scrittore belga, edito in Italia da L’Orma (casa editrice di riconosciuto valore, che vanta in catalogo autori come Volodine e Annie Ernaux).
Di solito mi sforzo di mantenere le recensioni impersonali, ma stavolta sento di dover fare una piccola digressione legata alla mia vita. Ho passato gli ultimi mesi nell’estenuante ricerca di un mono/bilocale. Sono entrata in venti agenzie, ho parlato con decine d’agenti immobiliari, ho letto centinaia d’annunci fisici e online. Accogliente appartamento. Stanza luminosa. Ampio balcone rivolto ad est. Mobili vintage, dal gusto retrò. Di solito la cosa si risolveva in: buco senza finestre né letto, balcone fatiscente a un passo dal crollo, mobili dell’anteguerra. Quando finalmente ho trovato casa (per farla breve), mi è accaduto uno strano fenomeno: non riuscivo a smettere di leggere annunci. Ormai ero così abituata a quel gergo immobiliare, a quella ricerca, che volevo vedere altre stanze, parlare con altri agenti, vedere che cos’altro era disponibile. Potenzialmente, per sempre.
Mi sono dunque sentita molto vicina al protagonista e al suo amico Braque quando, a inizio narrazione, sviluppano la stessa malsana dipendenza. Loro, ancora di più, per i cartelloni degli edifici in costruzione in Francia. Sono sempre tutti bianchi, gentili, disponibili. C’è sempre un anziano, una donna con passeggino. Persone che danno sicurezza.
E proprio qui inizia la storia del condominio Mayerling. Un condominio che sembra perfetto, il coronamento d’ogni sogno abitativo. Si fa la fila per accaparrarsi una stanza. Ciò che gli inquilini non sanno, è che il Mayerling nasconde oscuri segreti. In brevi capitoletti (ma non autoconclusivi) le vicende dei vari residenti si fanno terrificanti e distopiche. C’è chi pianifica stragi, chi trova anguille nella vasca da bagno e chi bambine senza occhi sul proprio letto, chi perde peso fino all’anoressia o lo acquista compulsivamente. Nello scantinato giace uno strano macchinario di cui nessuno saprebbe dire la funzione. A volte le porte rimangono chiuse d’improvviso come in un film di Buñuel.
La prosa di Quiriny è trafitta di un’ironia amara e surreale. Si tratta di una scrittura molto precisa, a tratti fin troppo chirurgica, che dà forse l’impressione di mancare in spontaneità e urgenza. A tratti si ha l’impressione che sia proprio il Mayerling a raccontare la propria storia.
Come modelli, oltre a Ballard, tra tutti viene in mente Perec con i suoi meccanismi ingegnosi. Forse è stato uno dei primi a rendere noto quel genere definito “romanzo condominiale”, cioè le storie degli edifici – spesso infestati – e delle persone che li abitano. “L’affare Mayerling” ne è un grande esempio, e il finale geniale è una critica feroce all’edilizia che specula e costruisce senza freni. Fino a portare alla follia.
Una storia grottesca e di immobili viventi e persone immobilizzate, un mondo in cui una riunione di condominio diventa un inferno (ma questo ce lo insegnano anche altri libri, e la vita).
“«Uno stabile moderno altro non è che una spiaggia depredata» mi spiega Braque.
«Per fare il cemento ci vogliono enormi quantità di sabbia, e ovviamente la si preleva dove ce n’è in abbondanza, ovvero sulle spiagge. E quest’ultime, quindi, scompaiono. La correlazione tra sviluppo urbanistico e regresso delle spiagge è facilmente constatabile sui litorali turistici; guardi la Spagna, per esempio. Ai turisti piacciono le palazzine vista mare; i costruttori, per farli contenti, aspirano dalle spiagge la sabbia che serve per il cemento; a quel punto ai turisti non resta che piazzarsi nei loro nuovi appartamenti di fronte all’arenile scomparso e sostituito da un paesaggio lunare. In Paesi come Singapore la sabbia non esiste più. E, per continuare a espandersi (Singapore è un’isola che sta invadendo il mare con milioni di tonnellate di sabbia sotto forma di palazzi, prassi, del resto, consolidata anche a Montecarlo), la importano. Preoccupati di perdere le loro risorse di sabbia, i Paesi limitrofi hanno stabilito delle quote massime di esportazione. Ovviamente le organizzazioni mafiose hanno messo le mani sul business. Si stenta a crederlo, ma è tutto vero: esiste un traffico clandestino di sabbia proprio come esiste il traffico d’armi o di stupefacenti. Neanche i Paesi del Golfo se la passano meglio. Prendi Dubai, quel ridicolo micro-Stato, una metropoli climatizzata artificialmente nel bel mezzo del deserto: non si limitano a piantare assurdi grattacieli su una superficie impraticabile (la natura del sottosuolo li obbliga a capolavori d’ingegneria per far sì che le fondamenta reggano), ma importano anche la sabbia, giacché non ne hanno a sufficienza sulle loro spiagge. E il deserto? si chiederà. Ebbene, a differenza della sabbia marina, quella del deserto non è adatta all’edilizia. Per questo Dubai compra la sabbia all’estero. Sabbia marina per cementificare il deserto. Le faccio anche notare che ogni granello di sabbia utilizzato per fare il cemento è sottratto per sempre al perpetuo scambio di elementi che coinvolge mare e spiagge. Prigione a vita. La trovo una punizione ingiusta per quei poveri granelli che non hanno mai fatto male a nessuno.»”
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