László Krasznahorkai
Non c’erano né dio né dei e questo loro, i nobili, gli eccezionali e gli straordinari, l’avevano dovuto capire e accettare, ma non erano stati in grado di farlo, crederci ci avevano anche creduto, accettarlo l’avevano anche accettato, ma capirlo proprio non lo capivano […] e già da tempo avrebbero dovuto salire sul gradino successivo, ossia, per riprendere il discorso di prima, se non ci sono né dio né dei, allora non c’è né il bene né il sublime.
Pensate allo stile torrenziale di Bernhard, alle tormentate domande esistenziali che sconvolgono i personaggi di Dostoevskij e alle atmosfere surreali di Kafka, aggiungete qualcosa della prosa barocca di Nabokov e potrete farvi un’idea di László Krasznahorkai, uno dei massimi autori ungheresi del Novecento, pubblicato in Italia grazie alla lungimirante scelta della casa editrice Bompiani.
László Krasznahorkai, con una scrittura percorsa da continui aneliti esistenziali, popolata da personaggi del sottosuolo nei toni e negli umori, rappresenta una sfida per il lettore; un autore che rifugge, per sua stessa ammissione, qualsiasi semplificazione che renda più fruibile i suoi testi, e che, in una concezione della letteratura che richiede impegno e dedizione assoluta, ripaga con pagine che sono come «un’ascia che rompa quel mare ghiacciato in noi».
Satantango (Bompiani, 2016, traduzione di Dóra Várnai) è il romanzo con cui esordisce nel 1985: un libro in cui compaiono già i temi cari che l’autore svilupperà, riprenderà e approfondirà nelle opere successive. Ambientato in un villaggio dell’Ungheria, Satantango catapulta il lettore in una decadente cooperativa agricola, emblema del sogno del collettivismo andato in rovina, popolata da gente avvilita, senza speranze per l’avvenire. Il ritorno di Irimiás, un uomo carismatico che agli occhi degli abitanti appare come una sorta di salvatore, sconvolge la vita della comune.
Gli ascoltatori, circondavano Irimiás, incantati, come se si fossero svegliati proprio in quel momento, e aspettassero storditi la sua spiegazione del perché, mentre dormivano, il mondo si fosse capovolto intorno a loro.
Irimiás, un astuto imbonitore che nella sua spregiudicatezza ricorda il Cicikov delle Anime morte di Gogol, approfitta del suicidio di una bambina e, facendo leva sulle speranze sopite degli abitanti, li persuade a farsi consegnare i loro risparmi, con la promessa di realizzare un nuovo, grandioso progetto sociale. Questa speranza non è altro che un un’illusione, tema ricorrente nelle opere di Krasznahorkai, che sembra mettere in scena di libro in libro lo stesso dramma.
Anche in Melancolia della resistenza (2018, traduzione di Dora Mészáros e Bruno Ventavoli) abbiamo una società allo sbando che vive nell’attesa messianica di un salvatore, di un evento, di un presagio che possa redimerla. L’arrivo in città di una balena, grazie a una compagnia di circensi, funge da vettore per il dispiegarsi degli eventi, a tratti tragico a tratti grottesco.
«La gente parla di apocalisse e giudizio universale, perché non sa che non ci sarà né un’apocalisse né un giudizio universale; sarebbero superflui, le cose vanno in rovina da sole, tutto si distrugge per poi ripartire di nuovo da capo, e avanti così senza sosta, evidentemente perché così deve essere,» sono queste le parole di Gyorgy Eszter, uno dei tanti personaggi di Krasznahorkai che scelgono volontariamente l’esilio dal consorzio umano, perché incapaci di abbracciare le illusioni di un’umanità che continua a riporre speranze in Dio, in un grande disegno, un progetto politico, un fine ultimo.
Nel ritorno del barone Wenckheim (2019, traduzione di Dóra Várnai) il gemello spirituale di Gyorgy Eszter è l’enigmatico, strampalato Professore, uno dei massimi esperti mondiali sui muschi, che vive per libera scelta in una baracca ai margini della città, disgustato dalla febbrile aspettativa di una collettività che ancora una volta nutre attese di salvezza grazie al ritorno in città dell’affascinante barone. «I muschi esistono e basta, e anch’io esisto e basta, e questo è quanto,» così il Professore sintetizza la sua metafisica interiore, una figura a cui fa da contraltare il Barone, un uomo più dinamico, tornato in Ungheria nella speranza di rivedere la donna amata. Entrambi, seppur con atteggiamenti diversi, si confrontano con il problema di Dio, con la sua presenza o, più precisamente, con la sua assenza.
Con Guerra e Guerra (2020, traduzione di Dóra Várnai) emerge in modo ancora più aggressivo, la vocazione alle speranze vane e all’autodistruzione dell’umanità e l’inevitabile follia che pervade coloro che ne prendono atto. «A un tratto davanti ai suoi occhi era apparsa la mappa della terra più triste in assoluto, un intero continente che stava sprofondando, una vera e propria Atlantide, che ormai era andata perduta sul serio e per sempre. È un uomo devastato a dire questo, un uomo annichilito, la voce di Korin a questo punto si affievolì».
Guerra e Guerra si apre con un lungo, ossessivo monologo del protagonista che non può fare a meno di riversare come un autentico fiume in piena al suo interlocutore, un uomo incontrato casualmente in un bar, le meditazioni che gli hanno tolto il sonno e rubato la pace. Ciò che muove la narrazione di Guerra e guerra è una grande domanda, ecco perché possiamo definire Krasznahorkai uno scrittore esistenzialista, se la prosa barocca e l’impianto narrativo dell’autore ungherese mancano dell’equilibrio formale del romanzo ottocentesco, nelle sue fondamenta, nella sua sintassi Krasznahorkai ripropone la tensione spirituale propria della grande letteratura dell’Ottocento.
Korin è un archivista di una piccola città ungherese che ha ritrovato un antico manoscritto che narra le vicende di quattro personaggi vissuti in epoche diverse. Queste vicende apparentemente slegate tra loro, lontane nel tempo e nello spazio, hanno un comune denominatore: a un’iniziale stato di benessere segue una rottura improvvisa, un cataclisma, come la guerra che distrugge la pacifica vita dei cretesi o lo scoppio della guerra franco-prussiana. György Korin giunge a una verità tanto semplice quanto terribile: la guerra è una condizione ineluttabile della storia e l’umanità è destinata a non conoscere mai pace. Per manifestare questa verità Korin compie un viaggio a New York.
Se in Satantango, Futaki, l’unico personaggio ad avvertire l’ineluttabilità della fine della comune, non ha il potere di incidere sullo svolgimento degli eventi, il Korin di Guerra e Guerra è un profeta inascoltato, straniero in terra straniera. Tutte le figure che incontra non possono capirlo: dal primo, misterioso interlocutore che lo abbandona, senza battere ciglio, alla banda di ragazzini che lo aggredisce e poi lo lascia andare, confusa dalle sue incomprensibili elucubrazioni, alla donna portoricana di New York che stenta a comprendere il suo idioma.
I personaggi di Krasznahorkai sono spesso uomini soli, alienati. «L’uomo è o feroce o vigliacco,» sentenzia l’archivista di Guerra e Guerra. Krasznahorkai offre al lettore il ritratto di una società alla deriva, una Comédie humaine nelle sue tinte più fosche, dove l’egoismo regola i rapporti. Gli abissi in cui si muovono i suoi personaggi sono sempre rappresentati secondo schemi poco convenzionali: la narrazione è labirintica, continuamente interrotta da divagazioni, da descrizioni trasbordanti, ipnotiche, fatte di lunghi periodi, privi di capoversi, che suscitano un senso di straniamento e di claustrofobia nel lettore e al tempo stesso lo trascinano nel loro flusso straripante.
Non è un autore per tutti, Krasznahorkai, uno scrittore in grado di mescolare trame intricate, un humour a tratti grottesco e personaggi unici del loro genere, portatori di una visione cupa che affascina e turba. Un autore da riscoprire, da leggere, lasciandosi trasportare dal fiume della sua prosa, soprattutto se si è alla ricerca di una lettura catartica.