Le armonie di Werckmeister (2000) di Béla Tarr
In un paesino ungherese in cui fa sempre freddo arrivano una notte due attrazioni portate da uno strano circo: un’immensa balena (cioè la sua carcassa) – “La balena più grande del mondo”, recita il manifesto – e un certo “Principe”, creatura umana misteriosa e deforme, un freak.
Improvvisamente scoppia il dramma. In quel preciso attimo, l’aria si raffredda inaspettatamente. Lo sentite anche voi? Il cielo si scurisce. Tutto diventa buio.
È un tramonto spaventoso e inconcepibile, un’eclissi. Di lì a poco si attende un’eclissi solare, che János Valuska (Lars Rudolph), protagonista del film, fa mimare nella sequenza iniziale, forse la più perfetta e toccante della pellicola, a un gruppo di ubriaconi in un’osteria in mezzo al nulla. Per far sì che, quando arrivi, possano comprenderla. Li mette in ordine in una stanza. Tu sei il Sole. Tu sei la Luna. Tu sei la Terra. E loro iniziano a danzare sulle note della musica struggente di Mihály Vig, aspettando che la luce torni. Perché dovrà tornare, prima o poi.
János Valuska è un giovane postino ancora in grado di stupirsi, di guardare ciò che lo circonda con ingenuità, curiosità, con i suoi grandi occhi chiari che assorbono ogni cosa, che non sanno arrendersi alla violenza e al dolore.
L’unico a riconoscere ancora l’armonia, come quella inventata da Andreas Werckmeister, teorico musicale del “buon temperamento“. Un’accordatura perfetta, con cui si possono suonare tutte le tonalità. Tanti se ne riempiono la bocca. János la vive.
La sua è una vita fatta di resistenza continua davanti a un mondo che cade a pezzi. Non a caso il romanzo da cui è tratto il lavoro di Tarr è Melancolia della resistenza, libro scritto dal suo collaboratore di lunga data László Krasznahorkai – riconosciuto ormai come uno dei più grandi scrittori ungheresi contemporanei grazie alle sue opere intense e impegnative. Più volte è stato indicato come un probabile premio Nobel per la letteratura. In Italia purtroppo sono disponibili soltanto due titoli, di fronte alla sua vasta produzione: Satantango, forse il suo romanzo più noto, e appunto Melancolia della resistenza, che dopo essere finito fuori catalogo (era stato pubblicato da Zandonai) Bompiani dovrebbe a breve ristampare.
János, da solo lungo la strada, va a vedere la balena chiusa dentro un capannone. E mentre tutti sono indignati (con tanti problemi, la povertà, la miseria, la mancanza di luce e di elettricità, che ce ne facciamo di un circo? Chi ha permesso loro di entrare nel paese?), lui guarda nei suoi occhi giganteschi e privi di vita. Dove tutti vedono vergogna e mancanza di rispetto, lui ritrova la meraviglia della Creazione. In quella balena c’è il senso della bellezza.
Il popolo, invece, preferisce seguire i discorsi totalitaristi del Principe. Distruggere tutto. Uccidere un innocente dopo l’altro. Il popolo preferisce trasformarsi in una processione di ombre violente e paradossalmente impotenti, perché non più libere di pensare. Buttare giù per ricreare, pur senza sapere che cosa.
La barbarie si fa sempre più evidente. La figura di un fragile vecchio, magrissimo e nudo mentre se ne sta in piedi nella vasca da bagno di un ospedale, guardando fissi negli occhi gli aggressori, si fa metafora dell’impotenza di fronte all’annichilimento. Simbolo di una sconfitta morale che riguarda l’intera umanità. Come un novello Cristo, ricorda agli uomini i loro peccati, la loro vergogna.
I giochi di luce e oscurità di Béla Tarr sono eccezionali e potenti, il nero avvolge e, invece di nascondere, mostra. Un film che presenta poche inquadrature (trentanove piani sequenza in tutto), ma lunghissime e perfette.
Intanto, tutto degenera e si autodistrugge. Si parla di riparare finestre e pianoforti, di cappotti grigi da sistemare. Eppure è chiaro: le azioni quotidiane non hanno più importanza, “nulla ha più importanza”.
Lo sguardo della balena e quello di János, vitrei e pieni di dolcezza, ne sono testimoni. Unici a ricordare che la vita assomiglia a un’eclissi, che basterebbe sforzarsi di guardarla da vicino senza pregiudizio per rendersi conto che l’oscurità è soltanto una brevissima pausa dalla luce.
Ma questo gli uomini non possono né vogliono capirlo. E allora scelgono di oscurare il Sole con le loro stesse mani.
Béla Tarr dà vita a un film lirico e fondamentale. Un cinema che si fa manifesto del dolore e della malinconia. János Valuska è in chiunque abbia la forza di ribellarsi, in chiunque tenti di resistere, in chiunque si sforzi di trovare della bellezza laddove per gli altri non ne esiste più.