“Le divoratrici” di Lara Williams
E se, in realtà, tutti gli spazi fossero restrittivi, tutto il mondo fosse progettato per inibirci, e anche solo esisterci volesse dire infrangere un tabù profondo? Cosa succede se smetti di rimpicciolirti costantemente, tutto il tempo, e invece ti ingrandisci? Forse, per trovare lo spazio necessario a ingrandirti, devi prendertelo.
Con il suo primo romanzo, Le divoratrici (Blackie Edizioni, 2021), Lara Williams esplora l’universo della fame femminile, sia letterale che metaforica. Attraverso la storia della protagonista, una quasi trentenne alla costante ricerca del suo posto del mondo, propone una riflessione generale su quanti e quali spazi abbiano davvero le donne, sul loro vivere costrette, su quel senso di mancanza che provano costantemente e spesso non sanno neanche bene come definire.
Roberta non si fa molte domande, cerca di sopravvivere tra un lavoro che fa quasi per caso e traumi passati che ha riposto in un angolo. Un giorno, quando incontra Stevie, qualcosa in lei cambia: le due diventano amiche, decidono di prendere casa insieme e di formare un supper club – donne che si ritrovano per mangiare e bere ben oltre la sazietà, assumere droghe, ballare, sporcare, e fare tutto ciò che non è concesso loro negli spazi quotidiani in cui sono relegate.
Durante queste serate, tutte le costruzioni sociali che riguardano il pudore e la dignità femminile vengono abbandonate, e chi vi partecipa si sente finalmente libera di esistere ai suoi termini, di sfamarsi fisicamente ed emotivamente, senza dover rendere conto a niente e nessuno: «Ebbene, quale violazione più massiccia di un’adunata di donne impegnate ad appagare i propri appetiti e a occupare spazio?»
Il paragone con Fight Club, spesso citato da chi legge il libro, viene quasi naturale. Una differenza sostanziale, però, ha a che fare con l’intimità della narrazione: l’urgenza di istituire un club tutto al femminile nasce da una repressione sistemica, è quasi connaturata alla stessa esperienza di essere donna, e diventa quindi in qualche modo l’unica via d’uscita applicabile. Questa inevitabilità risiede anche nella degenerazione degli incontri, che mano a mano si trasformano in atti di vandalismo, furti e irruzioni. Soltanto le persone che ne fanno parte riescono a capire: agli occhi degli altri – specialmente se uomini – risultano invece assurde, irragionevoli, a tratti spaventose.
Avevo l’impressione di aver passato tutta una vita a subire sfuriate dagli uomini, chi per una ragione e chi per l’altra, facendo i conti con l’aria viziata e corrotta che quelle sfuriate portavano. Con la maniera in cui ti costringevano a rintanarti negli spazi residui, e al diavolo se ci entravi a malapena».
Queste parole di Roberta risuonano costantemente all’interno del romanzo, sia nel racconto, sia nei flashback: una storia di sofferenze accantonate e mai elaborate, di spazi rubati, di dolore subito e a volte ricercato – una storia che, sebbene carente dal punto di vista dell’intersezionalità, racconta un po’ il vissuto di gran parte delle donne. Il nutrimento diventa fonte di frustrazione, il cibo – come l’amore – si fa negazione o totalità, senza vie di mezzo. Il continuo controllo imposto riguardo al proprio corpo, al comportamento, l’impossibilità di sperimentare diverse forme fisiche ed esistenziali per dover sottostare ai canoni della femminilità, si trasformano inevitabilmente in volontà di ribellione, di essere sfamate in modo quasi selvaggio:
La mia intera esistenza esprimeva gli impulsi contrastanti della fame: un desiderio di consumare, ma anche di essere consumata.
Attraverso il vissuto di Roberta, pian piano vediamo come il cibo non sia mai solo e soltanto cibo, ma un contenitore fondamentale in cui si riversano tutti i desideri e le incertezze della vita; vediamo come la disperata ricerca dell’amore romantico porti ad accettare la sofferenza e l’isolamento, in nome di una felicità di coppia che però spesso assomiglia solo al vuoto; vediamo quanto sia difficile trovare la propria strada in un mondo che sembra continuamente negarne l’esistenza.
Le divoratrici è un romanzo che vuole raccontare la difficoltà, l’apatia, la fame di vivere e l’impossibilità di farlo tutte insieme, con un tono sempre lucido e distaccato, che rispecchia il modo in cui la protagonista stessa affronta le sue emozioni: esterna, distante, come se avesse un piede nella sua vita e l’altro fuori, e qualche volta ne venisse irrimediabilmente risucchiata.
Questa esistenza sbiadita è ciò che accomuna tutte le partecipanti ai supper club che, nonostante abbiano un lavoro, una casa e delle relazioni, non sentono di avere un posto ben preciso nel mondo: solo lì, in quei luoghi e in quegli istanti, si sentono davvero libere di poter occupare uno spazio, rivendicarlo e divorarlo voracemente, scrollandosi di dosso tutte le repressioni che subiscono nel quotidiano. Il problema, però, è che poi questa consapevolezza non si riversa nella vita di tutti i giorni, ma rimane confinata nella segretezza di quei raduni.
Infatti, la grande forza – o la grande debolezza – di questo romanzo sta tutta qui: c’è un’evoluzione personale, ma nessuna rivoluzione. Sebbene il senso di comunità e condivisione portino Roberta ad accettare la sua storia, a educarsi sulle sue difficoltà e a condividerle con le sue compagne invece di allontanarle, il cambiamento rimane personale e circoscritto.
Non sembra esserci un’alternativa, perché queste serate notturne rimangono quasi un sogno lontano di affrancamento dai dogmi sociali, in una dimensione privata che non ha mai abbastanza coraggio da farsi pubblica. C’è un realismo estremamente cinico e demotivato che permea tutta la narrazione: l’inevitabilità di questo tipo di sofferenze, la discesa di entusiasmo per i supper club, le distanze che sembrano incolmabili.
Le divoratrici non offre un metodo di opposizione al mondo in cui viviamo, ma si presenta come un limbo quasi onirico: se si è schiacciate da tutto ciò che si ha intorno, infatti, è complicato trovare la forza di apportare un cambiamento, è spaventoso. Però, è lo stesso possibile pensare a un’alternativa, sognarla e applicarla, anche se richiede una lunga e impegnativa esplorazione di sé. Infatti, immedesimandoci in Roberta, in Stevie, in tutte le donne che cercano un modo di vivere che non le lasci perennemente affamate, alla fine siamo quasi costrette a farci una domanda fondamentale: «Di che cosa hai paura?».