“Memorie di un baro” di Sacha Guitry
Ho sempre vissuto solamente del denaro altrui e così facendo, sono arrivato a possedere diversi milioni; e ormai, senza amarezza né rimpianti di alcun genere, sono quasi ridotto in miseria. Credo quindi che il resoconto fedele della vita avventurosa da me condotta per più di trent’anni potrà riuscire divertente e istruttivo a coloro che sanno ancora apprezzare la schiettezza.
Sacha Guitry, regista, sceneggiatore, pittore e caricaturista francese, autore di centoventiquattro pièce teatrali e trentasei film che affascinarono e sedussero la Parigi degli anni Trenta e Quaranta, compie con le Memorie di un baro un insolito e irriverente esordio letterario. Pubblicato a puntate nel 1934 sul settimanale letterario «Marianne», e poi apparso sul grande schermo con il titolo Romanzo di un baro, giunge finalmente in Italia grazie alla traduzione di Davide Tortorella (Adelphi editore).
È una tragedia a dare il la alla narrazione. Il protagonista delle Memorie di un baro, unico superstite della tragica dipartita della sua famiglia, stroncata da un piatto di funghi avvelenati, si presenta agli occhi del lettore indossando i panni di un irriverente e impertinente Oliver Twist. Nelle Memorie di un baro ci sono tutti i classici elementi di un romanzo dickensiano: un bambino orfano, la povertà incalzante, una coppia di meschini tutori, ma la scrittura ironica, venata di umorismo, di Guitry dà a questa fabula moderna un sapore tragicomico.
Il giorno del funerale, mentre a testa bassa e occhi asciutti camminavo dietro quegli undici feretri, mi chiedevo se il fatto di essere stato miracolosamente risparmiato non mi desse un tantino l’aria di averli assassinati tutti io – e intanto, alle spalle, sentivo bisbigliare: «Ma lo sa perché il piccolo non è morto… Perché ha rubato!» Sì, ero vivo perché avevo rubato. Di lì alla conclusione che gli altri erano morti perché erano onesti.
È questa schiettezza irriverente e dissacrante a conquistare il lettore. Il narratore è un avventuriero, un malizioso briccone; è amorale, inutile negarlo, e proprio per questo è divertente.
Alla prima occasione il giovane fugge dagli insopportabili tutori e trova a Caen un lavoro come fattorino. In questa piccola cittadina si relaziona per la prima volta con gli esponenti dell’alta borghesia e si ripromette di diventare uno di loro, nella consapevolezza che è essere ricchi non significa avere molto denaro ma poterlo spendere. In cerca di nuove avventure si sposta a Parigi, dove entra nelle grazie degli ospiti dell’Hotel Scribe. Con lo spirito caustico à la Voltaire il narratore descrive la fatua e opulenta società parigina, cogliendone le ipocrisie e le contraddizioni, senza per questo celare il bruciante desiderio di farne parte.
Bisogna che ti credano sposato se non lo sei, e divorziato se sei sposato. I nomi delle tue amanti devono diventare di dominio pubblico solo quando vi siete lasciati. Abbi l’aria di nascondere qualcosa, affinché nasca una leggenda sul tuo conto. […] Se hai spirito, sii feroce, spietato. Una battuta è sacra. Devi fare battute a spese di tua sorella, di tua moglie se occorre – purché facciano ridere.
Dopo alcuni anni passati nell’esercito, dove né l’amor patrio né l’eroismo trovano spazio in una vita militare dominata dalla noia e dalla monotonia, e una rocambolesca toccata e fuga al fronte, il protagonista delle Memorie di un baro si trasferisce nel Principato di Monaco. A Monte Carlo, la città per eccellenza del lusso e del gioco, ha inizio la sua carriera di croupier e di baro professionista, tra vanità e intrighi amorosi degni di Casanova. Guitry, che era un accanito giocatore, attraverso le memorie del suo alter ego letterario ci offre un ritratto spietato dei frequentatori dei casinò: ne descrive le abitudini, le superstizioni, i rituali propiziatori. La febbre del gioco è sempre stata un oggetto privilegiato di molti racconti e in questo libro ritornano le atmosfere evocate ora Puskin ora da Zweigfino al celebre Giocatore di Dostoevskij.
Ci saranno mestieri più belli, ce ne saranno di più lucrosi, ma di più divertenti non ne conosco. Barare significa intralciare i progetti del caso, appropriarsi delle somme che altri hanno avuto l’imprudenza o la presunzione di mettere a repentaglio. Barare significa non solo contrastare l’opera del caso, ma addirittura sostituirsi a lui.
Il protagonista delle Memorie di un baro conduce una vita raminga, spesa a inseguire il brivido del gioco, mai soltanto fine a sé stesso; non si tratta di perdere o vincere grandi somme di denaro, giocare è una sfida, una battaglia ingaggiata contro il caso, dove l’astuzia prometeica del baro trionfa sulle probabilità incerte della sorte.
Il Fato però si prende la sua rivincita: un incontro casuale costringe il narratore a mettere in discussione la sua carriera di baro professionista. Le Memorie di un baro è un romanzo che si legge e si gusta tutto d’un fiato, grazie alla scrittura incalzante e graffiante di Guitry, capace di suscitare simpatia e di mettere a nudo le trame complesse e intricate dell’animo umano. L’esprit parigino fatto di leggerezza e ironia trova in Guitry la sua massima personificazione; la sua arte nasce dalla provocazione, la sua penna smitizza tutto ciò che vi è di sacro nell’esistenza, attenta a cogliere, a mettere a nudo i sentimenti e le intenzioni umane che si nascondono dietro il paravento della moralità e del finto perbenismo. Al termine dell’opera il lettore troverà un saggio di Edgardo Franzosini che fornisce una biografia precisa e dettagliata di quest’artista istrionico, eccentrico ed esuberante, il re dei teatri parigini e della battuta assassina, che morirà, perduti tutti i suoi beni, in una casa di riposo per vecchi scrittori, senza per questo pentirsi di una vita vissuta tra continui alti e bassi, sempre inseguendo passione e intensità.