Lingua madre e matrigna
Lingua madre è l’incredibile esordio di Maddalena Fingerle, uscito nella collana Incursioni di Italo Svevo edizioni. Incredibile perché questo romanzo non ha la fisionomia di un primo lavoro, uno di quelli che hanno una bella storia da raccontare ma non le parole per farlo al meglio, oppure di quelli che iniziano bene e poi zoppicano, si perdono in corsa. Lingua madre è un’opera matura che spiazza il lettore e lo accompagna tra le contraddizioni linguistiche della città di Bolzano – la stessa in cui è nata l’autrice –, divisa tra l’italiano e il tedesco.
Le piante di casa nostra però non hanno l’asma; hanno l’afasia, perché nemmeno loro parlano. Mia madre dice che bisogna parlarci, con le piante, e io ci provo, anche se non so cosa dire e recito qualche poesia a caso, ma mi sento scemo e quindi no, non lo farò mai più, che si tengano l’afasia.
Paolo Prescher vive con la sua famiglia composta da un padre affetto da afasia volontaria, quasi come le piante, e da una madre e una sorella che invece parlano troppo. Gli schieramenti in casa sono ben chiari fin dal principio: gli uomini schivi e attenti al linguaggio, le donne troppo prese dall’apparenza delle cose più che dalla loro vera essenza. Madre e figlia sono talmente simili che spesso arrivano quasi a sovrapporsi, per poi subito dopo scontrarsi rivendicando la loro indipendenza e diversità. Paolo fa da spettatore a questo rapporto privo di equilibri, riconosce nella madre i segni di un invecchiamento rifiutato e la proiezione di desideri e paure su una figlia che sente il bisogno di crescere in fretta, ostentando il suo ascendente sugli uomini.
Gli adulti di questa famiglia hanno fin da subito un ruolo fondamentale non solo come genitori ma anche come persone e finestre sul futuro. Infatti, Fingerle mette in scena un gioco di specchi a coppie (padre-figlio, madre-figlia) che si svela completamente al lettore soltanto alla fine della narrazione e può essere riassunto nel precetto biblico secondo cui le colpe dei genitori ricadrebbero sui figli: in tal caso forse sarebbe meglio sostituire il termine ‘colpe’ con ‘scelte’, alla luce delle ultime battute del romanzo.
Se fossi più coraggioso e riuscissi a farmi venire il mutismo, allora forse potrei comunicare con papà. Ma non lo sono e parlo parlo parlo e ripeto una parola mille volte perché mia madre dice che se la ripeti tantissime volte perde di significato o diventa il contrario.
Il protagonista vive la scelta del padre come una prova di coraggio e vorrebbe riuscire a sua volta a rinunciare alle parole, le stesse che la madre sporca loro continuamente. Le parole sporche sono quelle non autentiche, quelle che si appiccicano a un brutto ricordo, a una faccia arrabbiata che le pronuncia macchiandole irrimediabilmente. Paolo Prescher è proprio l’anagramma di parole sporche, finezza linguistica dell’autrice che aiuta a comprendere l’attenzione a più livelli di senso dedicata all’opera.
Nessuna espressione è casuale e si comprende da come l’autrice riesce a cogliere certe sfumature di senso e a dare nuove accezioni a parole di uso quotidiano, a volte apparentemente banali: per esempio, Paolo ha una madre, appellativo che si ripete di continuo, ma quando racconta del rapporto che quest’ultima ha con la sorella diventa improvvisamente mamma, assumendo una vicinanza che non gli appartiene. Non c’è casualità, ogni parola racconta qualcosa di più, non è mero veicolo di informazione primaria ma significa altro, va a fondo e poi riemerge assumendo le sembianze di chi la pronuncia.
Terza cosa che mi dico in testa: non posso più parlare italiano, devo usare altre lingue meno sporche. A disposizione avrei un po’ di inglese, un po’ di greco, un po’ di latino e un po’ di tedesco. Ci penso a lungo, non è una decisione facile.
Nel romanzo, è presente un importante momento di rottura seguito dalla partenza di Paolo: la sua è una decisione reale quanto ideologica poiché non sta lasciando solamente la città in cui ha sempre vissuto e dalla quale non si è mai sentito accolto, ma sta abbandonando soprattutto una parte di sé, quella legata all’afasia del padre, alla lingua italiana e al suo vocabolario pieno di macchie. Arrivato a Berlino sceglierà di parlare in tedesco e relegare alla voce dei pensieri la sua lingua madre, rendendosi soggetto di una vera e propria scissione linguistica – ma anche e soprattutto emotiva.
In un primo momento, la possibilità di utilizzare nuovi termini sarà per Paolo l’unica alternativa percorribile per poter avere a disposizione parole nuove e pulite che non veicolino nient’altro che il loro significato incontaminato. È rappresentativo che l’italiano sia legato a doppio filo alla sfera emotiva del protagonista e che ogni mutamento nei confronti della lingua rigettata sia dovuto a uno sconvolgimento sentimentale.
Lo sporco deriva dai ricordi negativi che si sono ancorati alle parole e non lasciano spazio ad altro, almeno fino a quando non verranno pronunciate da labbra nuove, labbra che laveranno via il dolore e riabiliteranno la lingua che da matrigna tornerà a essere madre.
C’è un’immagine in particolare che ricorre spesso nel romanzo e ne racchiude tutta l’essenza: quando ha a che fare con le parole sporche, Paolo cerca di levarle via con l’acqua e il sapone, si sfrega la pelle fino a farsi male per pulirle e riportarle alla loro forma originale. La lingua non è quindi percepita come un mezzo o qualcosa di estraneo ma è parte integrante della persona anche nella sua corporeità. Non c’è possibilità di scissione nella testa del protagonista tra le parole che ascolta e chi le pronuncia: la sua lingua madre è permeabile, si lascia attraversare da ogni evento che l’accompagna e assume i connotati di chi ne fa uso, forse irrimediabilmente.
È proprio grazie a questo legame viscerale che Paolo ha con il linguaggio che il lettore pagina dopo pagina può comprendere il suo dolore quasi primordiale, e osservare sempre più da vicino questo protagonista irrimediabilmente spezzato tra il bisogno di allontanarsi da sé e quello di ritrovarsi.