“L’ultimo libro di Emma Olsen” di Berta Dávila
Il signor Montana una volta mi disse che la caratteristica comune a tutte le grandi storie è che potrebbero accadere in qualsiasi parte del mondo. Credo che la mia appartenga solo a Faith e che al di fuori di Faith sarebbe come una goccia di candeggina in mezzo all’oceano. Forse proprio perché non è nemmeno una grande storia. Ma è la mia, la nostra, e ci ferisce come se la goccia di candeggina fosse caduta nel centro della pupilla, come se avesse attraversato ogni cosa importante da una parte all’altra.
Ci sono tragedie che non accadono all’improvviso, ma che vengono assemblate pezzo per pezzo, impilate mattone su mattone finché un peso di troppo non spezza l’equilibrio precario che manteneva tutto ordinato, separato, limpido. Forse, sono queste le tragedie più difficili da processare: la loro ombra oscura il prima e il dopo – quando si sperava che nulla sarebbe successo, sebbene se ne avesse il sentore, e quando poi si arriva a sperare, invano, che nulla sia successo davvero. Il romanzo di Berta Dávila, L’ultimo libro di Emma Olsen (Aguaplano, 2022, traduzione di Marco Paone), narra proprio di questo: dell’impotenza nell’affrontare i drammi che – volenti o nolenti – ci hanno formato, e dell’importanza di provare a sviscerare quei tristi ricordi che sono stati scacciati sempre più in fondo, confidando nel fatto che non sarebbero più riemersi.
Emma Olsen è una scrittrice di successo che, affetta da una malattia terminale, negli ultimi anni della sua vita decide di tornare nella città in cui è nata, Faith, e di raccontare come e perché da lì se ne sia andata senza tornare. Con una scrittura dolce e mai banale, attraverso metafore semplici e immediate, Dávila ci fa immergere nell’infanzia di un personaggio che si srotola lungo le strade di un paesino «a cento miglia da qualsiasi luogo», in cui l’unica cosa che tiene vivi è il desiderio – un giorno – di andarsene. Scrivendo, Emma riporta sulla pagina un sentimento comune tra chi nasce e cresce in provincia: la rabbia mista alla nostalgia per qualcosa che non si è mai vissuto, l’odio per le proprie radici e la disillusione quando ci si accorge che esse faranno sempre parte di sé, cosa che a volte porta anche sollievo.
E anche se da giovani tutti volevano vivere a New York, o in qualsiasi altra città purché non fosse Faith, la verità è che quando ti trovi in un luogo è impossibile capire in che misura quello stesso luogo ti appartenga.
Questo miscuglio di sensazioni è ciò che più lega la protagonista a Clarissa: la bambina – e poi ragazza – con cui ha condiviso tutta la sua infanzia e poi adolescenza; la sua immagine speculare, la sua «gemella siamese», la persona a lei più vicina e più lontana allo stesso tempo.
Ma cancellare la presenza di Clarissa in me significava cancellare troppe cose; significava tentare di amputare, nel ricordo, una gamba o un braccio alla persona che ero stata, e ricostruire la memoria con l’immagine di questa assenza. Soprattutto, era difficile negare che c’erano stati dei giorni felici, specialmente quelli dell’equinozio d’autunno, alla fine di settembre.
Il loro rapporto è quello che infiamma Emma e contemporaneamente la spegne: insieme, sognavano di andarsene da Faith per le strade più estreme, giocando a scrivere liste di modi per morire pur di non rimanere lì, «perché restare qui per sempre era quello che tutti si aspettavano da noi». Sempre insieme, sperimentano le prime attrazioni, i primi sentimenti di affetto, le prime gelosie.
La tragedia che spinge la protagonista a fuggire una volta per tutte da Faith trapela fin dalle prime righe del romanzo: tutto è tinto di malinconia, pervaso dalla sensazione istintiva che qualcosa, prima o poi, crollerà, e che arriverà del male. Questa relazione ne è l’esempio più chiaro, nel suo essere così profonda e intima, ma anche così distruttiva. E che «diciassette anni è l’età in cui le cose vengono vissute intensamente, soprattutto il dolore, le piccole pene», Emma e Clarissa lo sanno bene – siccome continuano a ferirsi e a curarsi vicendevolmente, a separarsi e riappacificarsi finché, alla fine, l’ultimo mattone fa cadere la torre che si rompe in mille pezzi.
Nel libro, il tentativo di Emma è quello di raccogliere uno a uno questi frantumi, di riposizionarli – stavolta – osservandoli dall’esterno: solo così può riuscire a verbalizzare e a processare ciò che più ha tentato di rimuovere. Il segreto a lungo taciuto diventa così di pubblico dominio, e la morte imminente è ciò che la spinge a farlo uscire definitivamente: il non sapere come le sue parole verranno accolte la consola; la condanna dell’oblio si fa benedizione perché – se è vero che si è tolta un peso gravoso dalle spalle – non è costretta a vedere come esso troverà posto nel mondo e a Faith in particolare.
L’ultimo libro di Emma Olsen tratta moltissimi temi – dall’infanzia alla scoperta della propria identità, dalla provincia al potere della letteratura – con una linearità invidiabile: niente è fuori posto, anzi, l’autrice costruisce parola per parola quella tensione che solo alla fine sfocia nell’inevitabile tragedia, costringendo a riflettere e a guardarsi indietro. Raccontare, qui, significa soprattutto elaborare, mostrando come la lingua possa aiutare a comprendere chi siamo e perché lo siamo, talvolta. Infatti, nelle ultime parole scritte da Emma, ciò che risulta di fondamentale importanza per lei è reintegrare quella parte a lungo allontanata della sua vita: tornare a essere intera, a reincorporare in sé la sua tragedia personale, per quanto tutto ciò possa far male. Perché, se è vero che si cresce, che si cambia, che si dimentica, spesso è anche vero ciò che lei stessa scrive:
Immagino che gli occhi con cui si guarda il mondo a otto anni restino gli stessi per sempre.