Patrizia Valduga
"Belluno - Andantino e grande fuga"
Affrontare Milano è per me una sfida più che ardua; per chi vive in una regione di poco meno di centotrentamila abitanti, soltanto prendere una metro provoca un misto di entusiasmo e nausea capace di lasciarti catatonico per ore. Sono determinato però: Patrizia Valduga presenta il suo ultimo libro Belluno – Andantino e grande fuga, potrò vederla finalemente, la Dama Nera. Direzione libreria Verso Libri, corso di Porta Ticinese, un nome che a me dice poco o niente. Presenta Silvia Righi, capofila di MediumPoesia.
Scopro rapidamente che le distanze a Milano si misurano in miglia, in chilometri e che sono in ritardo già in partenza. Contando che vengo colto da una di quelle pioggie che in altre parti del mondo diremmo monsoniche, arrivo che la presentazione è già iniziata, a dir poco fradicio.
Ma eccola lì, la fulva poetessa dal parlare ardito, l’incantatrice di versi. Le sue parole fendono la stanza e la sua voce riempie l’aria di note malinconiche.
Come sempre veste di nero; è stretta in un tubino corvino che la fa apparire più fragile e minuta di quello che pensavo potesse essere. Il suo immancabile cappello a tesa larga è posato poco lontano da lei… meglio che mi fermi però, ho già preso una strada sbagliata, già Valduga mi darebbe del cretino; eccola recitare, infatti:
Già vi sento: – La Valduga è impazzita.
Sarete savi voi, teste di cazzo…
No, la Valduga è savia, o rinsavita.
Se parlate di velette, vi ammazzo.
Una grande porzione del libro è dedicata proprio a virulenti attacchi contro i critici letterari – o i sedicenti tali –, come era già accaduto nel Libro delle laudi (Il mondo letterario mi fa orrore: / ormai ci sono solo giornalisti. / Non si sa più cosa sia la cultura, / perché la fanno solo i giornalisti), ma la verve polemica della Valduga non trova pace fino a quando non passa in rassegna alcune delle frasi più comiche e grottesche da lei incontrate nelle quarte di copertina; …è un frammento del DNA dell’anima. / …entra sotto pelle e ci rimane., “ma vi immaginate un libro che entra sotto pelle? Fa orrore”, commenta.
Ancora, si scaglia contro i rappresentanti del PD, contro la politica, tanto che se Raboni (compagno storico della stessa e voce poetica tra le più alte del novecento italiano) scriveva “Vorrei chiarire che per me le mie poesie sono tutte politiche, oppure (che fa lo stesso) non lo è nessuna”, potremmo leggere quest’ultima raccolta come una fuga dal mondo, uno sdegnato ritiro della Valduga nella località delle sue vacanze, Belluno, appunto. È, dunque, un simpatico a parte, come suggerisce anche la pubblicazione fuori dall’abituale collana Einaudi, o una grande fuga.
Ogni estate a Belluno
per almeno due mesi.
Ma non frega niente a nessuno…
né a me né ai bellunesi…
La poetessa pare dunque ricercare se stessa nel contatto con il paesaggio che le si staglia attorno, con le montagne bellunesi, o ancor più nella lingua che incontra nel suo viaggio. Valduga è, d’altronde, un’autrice dalla forte componente metalinguistica, e il suo trobar è essenzialmente linguistico. Il parlato veneto offre, pertanto, numerosi spunti per martellanti elenchi dagli accenti tronchi, per giochi lirici e linguistici in dialetto, grazie all’arguzia e la vivacità lessicale che l’autrice non ha mai perso negli anni, e che forse è la vera cifra stilistica del suo dettato poetico.
Tuttavia, la nota di basso su cui viene modulata tutta la raccolta è sicuramente l’assenza-presenza di Giovanni Raboni, che come un fantasma è in continuo dialogo con l’autrice, seppur senza mai apparire.
Che cosa ho fatto in tutti questi anni?
Quanti miliardi di secondi sono?
È in questi anni del dopo-Giovanni
che ho imparato a gridare senza suono.
Valduga si rappresenta, dunque, come in perenne ascolto, in attesa di una parola che la possa salvare, tanto che Giovanni si sdoppia, si moltiplica, s’indìa, e diventa dapprima Johannes, il protagonista di Ordet di Karl Theodor Dreyer, poi il Don Giovanni di Da Ponte. Raboni diventa una sorta di presenza evanescente, l’Ideale racchiuso in ogni gesto dell’autrice. D’altronde, è di Ideale che ella stessa parla:
Le nuove ere sono qui, lo so,
le vedo… ma un… si può dire o no?…
un Ideale… si può ancora avere?
e cosa ancora mai devo vedere
prima che il tempo compia il suo lavoro…
Deh, vieni alla finestra, o mio tesoro!
Deh, vieni a consolar il pianto mio…
O mio Ideale, mai ti dirò addio.
Belluno – Andantino e grande fuga potrebbe essere detto una summa, dunque, della poesia valdughiana, una produzione minore e quasi diaristica che, come un un canto a canone, si realizza in un’insistita variatio su tema fisso. Tanto che, se probabilmente non è il libro più riuscito di Patrizia Valduga, esso è forse uno dei più intimi.
Per usare le stesse parole della Valduga, potremmo dire “prendi farina, acqua e uovo; sono tra gli ingredienti più semplici, eppure posso darti una galletta secca o una torta morbida. Dipende da come li impasti. Ecco… questa volta è uscita una torta”.