“Perché tornavi ogni estate” di Belén López Peiró
Per loro, per me, tacere è sempre stato il castigo peggiore. Parlare rende liberi, anche se le catene non se ne vanno. Neanche dopo che mi sono guardata negli occhi. Le ho viste e mi sono vista.
Attraverso il racconto di un abuso sessuale vissuto in prima persona, in Perché tornavi ogni estate (La Nuova Frontiera, traduzione di Amaranta Sbardella), Belén López Peiró trasforma la sua scrittura in un importante atto politico: ricostruendo la vicenda e le sue conseguenze, denuncia non solo il colpevole della violenza, ma anche il sistema che ha permesso – e tutt’oggi permette – che questi fatti accadano quotidianamente, rimanendo perlopiù impuniti.
Il libro è strutturato come un testo corale: flussi di coscienza della protagonista e della sua famiglia, stralci di dialoghi, verbali di atti giudiziari si fondono per raccontare da più punti di vista ciò che è realmente successo. Se la storia è già di per sé straziante – uno zio che abusa ripetutamente di una nipote, approfittandosene ogni volta che la bambina si trova a casa sua –, lo è altrettanto il modo in cui essa viene riproposta. Aprendo il libro, infatti, si viene trascinati nello stesso vortice di pensieri, situazioni ed emozioni che la protagonista ha dovuto affrontare sia prima che dopo aver denunciato: colpiscono sia l’indifferenza e l’omertà delle persone a lei più care, sia la durezza delle parole che la donna rivolge a sé stessa.
Perché sei l’unica che non si perdona: non ti perdoni di averglielo lasciato fare, non ti perdoni di essere chi sei, non ti perdoni di voler essere un’altra persona. Puoi pure punirti, infliggerti del dolore, darti fuoco, rimarrai sempre nel tuo corpo. Meglio se getti la spugna e scendi dal ring.
Tutto il romanzo è attraversato da una rabbia aggrovigliata e costante, che viene indirizzata verso il sistema politico e giudiziario – per aver permesso tutto ciò, per non crederle e offrirle supporto come dovrebbe –, verso lo zio che l’ha violata, verso chi non si è mai accorto di cosa stesse succedendo pur vivendo insieme a lei, verso le circostanze che l’hanno costretta a vivere questi momenti, e soprattutto verso di sé, incolpandosi – anche se senza un logico motivo – per non aver parlato prima, per non aver fermato tutto.
Perché tornavi ogni estate non è solo il racconto di un episodio traumatico nella vita della protagonista: è anche – e soprattutto – una rivendicazione politica. La descrizione del contesto fa trasparire quanto la violenza di genere si esprima nei modi più subdoli, fino a spingere un’adolescente a colpevolizzarsi per le violenze che ha subito.
Il libro, infatti, si presenta come una reazione alla sistematicità di questi eventi: «Distruggilo con le parole, finiscilo in un punto e fottilo tra le virgole. Così, senza altro. Senza altra sofferenza, senza altro dolore, senza altro di te», è questo il consiglio che mette in pratica Belén López Peiró. Scrivere non solo per esorcizzare, ma anche per esprimere il proprio punto di vista senza interruzioni, domande scomode e commenti invalidanti. Denunciare non solo per cercare giustizia, ma anche per tutte le persone che non hanno potuto avere il privilegio di poter parlare. Autodefinirsi per aiutare a reagire tutte le altre, perché «chiamarle vittime significa fotterle un’altra volta. E un’altra ancora. Significa convincerle che gli hanno distrutto la vita, che la loro storia inizia e termina lì, con il tizio dentro».
Perché tornavi ogni estate ripercorre i passi di una violenza ripetuta, la storia di anni di sofferenza e della decisione di cercare di metterle fine; ma è anche molto più di questo: ogni pagina trasuda una volontà immensa di distaccarsi dal tipo di narrazione che vuole le donne vittime inermi e che le definisce in base a quello che hanno dovuto passare. La protagonista è in balia degli eventi, le immagini non appaiono nella sua mente in maniera lineare, il trauma l’ha segnata, e lo vediamo in tutto ciò che pensa e fa. Però, la lotta non avviene solo a livello giudiziario: è anche e soprattutto in tensione con sé stessa per non ridursi a essere una vittima di ciò che le è successo.
E ogni volta che lo rivivo provo la stessa identica sensazione: non finirà mai. E lotto contro me stessa per liberarmi di ogni immagine, per cercare di porre un freno a quel dolore che torna ogni mattina e mi distrugge. […] Ma nulla è sufficiente.
La scrittura molto dura e diretta di Belén López Peiró arriva come un pugno allo stomaco, tanto che a volte diventa soffocante, com’è soffocante pensare che le scene da lei descritte sono all’ordine del giorno per moltissime persone. In questo libro si esprime una violenza capillare: ogni pagina è impregnata di violenza, le stesse parole sono violente. Non c’è nessun addolcimento né edulcorazione: è un libro denso, e ogni riga pesa come un macigno. La storia raccontata è estremamente personale ma – allo stesso tempo – potrebbe appartenere a chiunque: l’indifferenza, la complicità delle istituzioni, il silenzio, l’abbandono, sono solo alcune delle sensazioni che chi denuncia una violenza è spesso costretta a sentire, ed è proprio questo che la scrittrice cerca di comunicare attraverso questo racconto.
Le convincono a chiudersi dentro casa per proteggersi, a serrare le gambe, le persuadono che sono loro le responsabili e che per questo meritano una simile punizione», è questo il destino che la società ha in mente per persone – specialmente donne – che subiscono violenza. Scrivere, raccontare, parlare, significa reagire, sia per sé che per chi non ha la possibilità di farlo. Ed è proprio a una delle domande fatte alla protagonista dopo aver denunciato – la cui risposta non è univoca, ma che in molti casi si aggancia alle stesse dinamiche patriarcali descritte – che questo romanzo cerca di fornire la propria visione, personale e politica: «E, dimmi, cosa si prova a subire un abuso?