«Remember the Light, Believe in the Light», l’estrema umanità di Sarah Kane
Era il 1995 quando, al Royal Court Theater Upstairs di Londra, la forma teatrale fino ad allora conosciuta saltò in aria per opera di una giovane drammaturga di ventitré anni. La rappresentazione di Blasted (spesso tradotto in italiano con Dannati), una delle cinque opere scritte da Sarah Kane nella sua breve vita, segnò uno spartiacque piuttosto profondo tra il prima e il dopo nella concezione della rappresentazione: il pubblico rimase incredibilmente turbato da scene di violenza brutale e quasi insopportabile, riportate sul palco per filo e per segno, dallo stupro al cannibalismo.
Ho scoperto Sarah Kane mentre studiavo per l’ultimo esame di letteratura inglese della mia laurea triennale, grazie a un piccolo trafiletto di sette o otto righe nel manuale. Del suo lavoro mi ha da subito colpito la volontà esasperata di portare sulla scena ciò che di più soffocante e violento esiste – di rendere davvero rappresentabile la realtà, in tutte le sue sfaccettature meschine e crude, perché le storie che ci raccontiamo hanno davvero la capacità di definire il mondo in cui viviamo. Kane credeva fortemente che nessun sentimento o impulso umano dovesse rimanere escluso dal contesto artistico: tagliare fuori avrebbe significato perdere una parte importante, censurare qualcosa che vive comunque, fuori o dentro di noi. E se tutto il mondo è un palcoscenico, per citare William Shakespeare, dev’essere vero anche il contrario: la rappresentazione è realtà, e plasmare le storie per renderle delicate e godibili – soprattutto quando non lo sono – è un atto violento di falsificazione della realtà stessa.
Diventa perciò centrale considerare il tema della violenza nell’opera di Sarah Kane: specialmente nelle sue prime tre pièces teatrali, il corpo si fa campo di battaglia subendo ogni sorta di brutalità. Blasted è l’esordio e, di conseguenza, quella giudicata più controversamente dalla critica e dagli spettatori: l’abuso domestico si fa abuso di guerra, richiamando il genocidio di Srebrenica, come per trovare una sorta di connessione universale della sofferenza e del dolore che penetrano nelle vite di tutti in maniera molto diversa, ma che alla fine si replicano in modo costante. Ma, ovviamente, la rappresentazione così cruda e impattante di ogni tipo di sopraffazione ha raccolto molte critiche, che però si fermavano solitamente all’apparenza: alla stessa Kane sembrava che chi le muovesse fosse più indignato della rappresentazione della violenza che della violenza in sé.
Dello stesso filone fanno parte le successive opere Phaedra’s Love ( L’amore di Fedra) e Cleansed (Purificati): la prima è una rilettura e riscrittura della celebre Fedra di Seneca – Kane confessa di aver letto soltanto in secondo momento la versione di Euripide –, un intreccio di amori ossessivi, incesti e bugie; la seconda, invece, è la storia di un gruppo di ragazzi che patiscono delle torture fisiche in una sorta di università-ospedale psichiatrico-campo di concentramento, ad opera di un sadico Tinker, simboleggiando gli struggimenti vissuti a causa dell’amore travolgente e passionale che provano. L’emotività si trasforma perciò in fisicità, rendendo visibile sul palco ciò che queste persone vivono costantemente nella mente e nel cuore.
Continuando ad analizzare l’opera di Sarah Kane, diventa quindi sempre più evidente come non sia utile soffermarsi sulla sua rappresentazione puramente estetica della violenza – anzi, essa diventa il mezzo per comunicare nel modo più scioccante possibile ciò che c’è dietro, che è quello che ci rende fragili e umani: l’amore in tutte le sue sfumature. Questo contrasto tra ciò che il pubblico vede accadere e ciò che invece lo investe emotivamente è uno dei motivi principali per cui il teatro di Sarah Kane è di rara potenza, un’esperienza drenante e immersiva – quasi catartica – da cui si esce, in qualche modo, cambiati. «Amami o uccidimi», dice a un certo punto uno dei personaggi di Cleansed, frase che può essere presa come sintesi di questo concetto: il punto in cui i due estremi si incontrano e si intersecano nella disperazione più profonda.
Nelle sue due ultime opere teatrali, invece, la violenza (sempre presente) subisce un processo di astrazione e traslazione nel linguaggio: viene maggiormente verbalizzata – quelli che prima erano coltelli si fanno parole –, continuando comunque a provocare lo stesso assoluto dolore. Infatti, in Crave (Febbre), pur mancando ogni tipo di azione, il lungo monologo a quattro voci – pronunciato da quattro personaggi identificati solamente con le lettere A, B, C e M – tocca dei picchi di emotività e agonia molto alti. L’assenza di caratterizzazione favorisce l’identificazione con le parole pronunciate con un ritmo quasi poetico, svelando a poco a poco sentimenti e stati interiori estremamente intimi ma, allo stesso tempo, comuni:
[…] e raccontarti il peggio di me e cercare di darti il meglio perché è questo che meriti e rispondere alle tue domande anche quando potrei non farlo e cercare di essere onesto perché so che preferisci così e sapere che è finita ma restare ancora dieci minuti prima che tu mi cacci per sempre dalla tua vita e dimenticare chi sono e cercare di esserti vicino perché è bello imparare a conoscerti e ne vale di sicuro la pena e parlarti in un pessimo tedesco e in un ebraico ancora peggiore e far l’amore con te alle tre di mattina e non so come non so come non so come comunicarti qualcosa dell’assoluto eterno indomabile incondizionato inarrestabile irrazionale razionalissimo costante infinito amore che ho per te.
I flussi di coscienza si intrecciano raccontando le storie delle quattro persone sulla scena dal loro punto di vista, in un susseguirsi di domande senza risposta, interazioni che non si incastrano tra loro e silenzi comunicativi. La capacità di scrittura di Sarah Kane emerge nella sua rappresentazione dell’amore, della violenza e di tutto ciò che sta nel mezzo: il linguaggio si fa portavoce di questa continua tensione tra il sogno e l’orrore, tra il desiderio e la disperazione, e raggiunge il suo culmine nella sua ultima opera, 4.48 Psychosis (Psicosi delle 4.48).
A causa della depressione e del suicidio, quest’ultimo scritto della drammaturga è stato molte volte ricondotto dalla critica alla dimensione della malattia e della morte, letto come una lettera d’addio che Kane ha voluto lasciare prima di impiccarsi il 20 febbraio del 1999. In realtà, 4.48 Psychosis è molto di più. Sicuramente racconta l’esperienza vissuta in prima persona dall’autrice – del suo vivere le emozioni in maniera amplificata, della tristezza alienante e del dolore che costellava la sua vita – ma è anche e soprattutto una critica alla patologizzazione subita dalle istituzioni psichiatriche e un inno alla speranza e alla libertà, a validare sé stessi nelle condizioni più marginalizzate. La violenza, qui, si replica nei pensieri e nelle azioni della voce narrante, che trascina il pubblico in un costante monologo composto da stralci di conversazioni, elenchi di medicinali, flussi di coscienza e versi a tratti poetici. Si parla di odio per parlare delle forme più pure di amore, di morte per parlare dell’attaccamento alla vita, e si inizia un viaggio nella parte più oscura della mente – quella che spesso viene nascosta – o meglio, che si è costretti a nascondere – per paura o vergogna.
alle 4 e 48 / l’ora felice / in cui l’oscurità mi fa visita /dolce oscurità / che mi penetra negli occhi / Io non conosco peccato / questo è il male del diventare grandi / questo bisogno vitale per cui morirei / essere amata.
L’eredità letteraria lasciataci da Sarah Kane può essere raccolta in un volume di nemmeno trecento pagine, ma è comunque vasta per ciò che ha comunicato e per ciò che ha segnato nell’ambito della storia del teatro inglese ed europeo.
La corporeità, l’uso della violenza, la rappresentazione dell’irrappresentabile hanno come fine ultimo quello di colpire il pubblico provocando negli spettatori emozioni forti e quasi insostenibili, mettendoli nudi di fronte alle loro più profonde fragilità emotive. Dalle mutilazioni più macabre, dagli atti più indicibili e dagli abusi più inauditi, sul palco, nasce la considerazione dell’amore come la più alta forma di cura. E proprio come in Cleansed dal sangue e dall’orrore germogliano bellissimi girasoli, così Sarah Kane cerca di far spuntare in noi – sbattendoci in faccia la nera disperazione – questa flebile ma salda speranza che è la nostra umanità.