“Sad Girl. La ragazza come teoria”
Tutto questo dolore ci sarà utile, a patto che lo capitalizziamo.
In Sad Girl. La ragazza come teoria (66thand2nd, 2024), intrecciando storie personali e analisi sociale, Sara Marzullo prova a tracciare un profilo della figura della ragazza – più in particolare della ragazza triste – attraverso la sua rappresentazione nel panorama culturale e sulle piattaforme online. La tematica viene affrontata partendo da una prospettiva personale: l’autrice racconta, a tratti, della sua adolescenza, del suo essere teenager e di cosa ha significato per lei riconoscersi in determinati riferimenti mediali. Col distacco, però, che l’età adulta può dare, è riuscita a identificare anche i risvolti negativi di questa immedesimazione che spesso mancava di autoanalisi e criterio, e che sembra essere un fenomeno largamente condiviso, perché largamente condiviso è anche il malessere che lo fa scaturire.
I primi due capitoli, che considero anche i più centrati del testo, iniziano proprio col delineare un profilo di quella che è la “sad girl”, sia nella realtà che nella finzione: la tristezza che sembra non avere un punto di partenza né di arrivo, la malinconia che avvolge la personalità nel mistero, l’attenzione morbosa ma allo stesso tempo superficiale che questa figura attira su di sé.
Molti sono i film e la letteratura citati come punti di riferimento di questo marasma emotivo: Il giardino delle vergini suicide, Sylvia Plath, Prozac Nation, Joan Didion, e così via; gli stessi punti fermi a cui mi aggrappo da quando ero un’adolescente. Questo fatto mi ha portata a riflettere molto, a intrecciare la mia storia personale con le dinamiche sistemiche – come fa la stessa Sara Marzullo – per cercare di dare un senso a questa rappresentazione inconsapevolmente condivisa, a questo ritrovarsi, da ragazze, legittimate dalla tristezza.
Quella della “sad girl” è una figura estremamente complessa e sfaccettata, che però non viene mai resa tale dallo sguardo esterno. Esemplificativa di questa tendenza è senz’altro Laura Palmer in Twin Peaks: la curiosità morbosa che tutti hanno nei confronti della sua storia la porta a essere una figura completamente inafferrabile, non solo per la sua misteriosa morte, ma anche perché i personaggi vedono in lei solo quello che vogliono vedere, e si danno spiegazioni arbitrarie, proiettandole addosso tratti e caratteristiche per tentare di fare luce su ciò che considerano oscuro. Eppure Laura Palmer, come molte altre, è una figura a tutto tondo, stilizzata da una narrazione frammentaria cucitale addosso. Lo stesso meccanismo, anche se in modi diversi chiosa Marzullo, si applica anche alla «ragazza triste, erede autoproclamata di quella tradizione artistica e femminista che aveva trasformato ciò che genericamente chiamiamo tristezza […] in una sorta di stato creativo».
Riappropriandosi di un’auto-narrazione, questa malinconia allora viene rivendicata dalle teenager, specialmente nell’epoca dei post su Tumblr e della condivisione di un malessere di matrice comune. La ragazza triste è una figura che può essere capita solamente da altre ragazze tristi, perché il disagio della condizione femminile è qualcosa di intimo e personale, ma che ha tratti comuni dati da un’oppressione patriarcale sistemica.
Questo è il motivo per cui alcuni libri, film, autrici sono diventati quasi oggetti di culto: la capacità di rappresentare questa sensazione non è affatto scontata, perché è la sensazione stessa a essere ingarbugliata e complessa, dato che deriva da un paradigma culturale in cui si nasce e si cresce anche inconsapevolmente. Attraverso questi immaginari implicitamente accordati, quindi, le “sad girl” creano i propri autoritratti, col rischio di diventare la loro tristezza, e di ricadere in quel meccanismo di appiattimento che volevano evitare.
Nei capitoli successivi – perdendo un po’ il focus centrale – Sara Marzullo mette in campo la sua vita personale, lavorativa e privata, per procedere a un’analisi di come il sistema capitalista abbia visto un’opportunità e si sia infilato in queste crepe per renderle appetibili. La “sad girl” diventa così un tropo mercificabile: la narrazione di sé viene privata di ogni rivoluzione politica per diventare oggetto di profitto, annullando le istanze di rivendicazione contenute all’interno di esse, almeno a livello mainstream. La capitalizzazione del dolore è un processo già discusso e analizzato, ma in questo caso arriva ad avere risvolti su più piani: dall’arte alla sessualità, dai femminismi all’agentività delle singole soggettività. Il discorso è davvero stratificato perché le intersezioni politiche ed economiche variano da caso a caso e sono, quindi, molto numerose, e Marzullo lo porta avanti ricalcando un po’ i passi della narrazione femminista, partendo da sé e dalla sua storia. Sono le sue esperienze, unite a tutto ciò che ha letto, visto e studiato, ad averla fatta render conto di meccanismi contorti che creano un malessere generale molto specifico.
Ma una volta entrate in questo circolo vizioso – basato su quanto la rivoluzione sia effettivamente appetibile commercialmente parlando – è possibile uscirne? E se sì, come? La risposta di Sad Girl è che una risposta univoca semplicemente non c’è: analizzando figure di pop star, artiste e letterate, prendendo in esame fenomeni complessi come quello del MeToo e del lavoro sessuale, quello in cui ci si trova è una profonda ambiguità che non può essere risolta con un piano preciso, perché declinata in vari modi a seconda del contesto e del soggetto. Infatti, l’unica via percorsa da Marzullo è quella della riflessione, con l’aperta conclusione che «risolvere l’ambivalenza femminista, insomma, significa anche restare nell’ambivalenza», avere la capacità e la forza di mantenere uno sguardo sul mondo che possa cogliere le sfumature e che rimanga fedele alla sua complessità.