Sangue, pornografia e censura. I “Sonetti lussuriosi” di Pietro Aretino
Nella notte del 28 luglio 1525, a Roma, uno scrittore famoso si trova in una degradata piazzola popolata da prostitute e lestofanti. D’un tratto un uomo lo assale, conficcandogli più volte un coltello nel petto prima di dileguarsi. L’accoltellato langue sui sanpietrini ma, nonostante le gravi ferite, resta stentatamente in vita. Ristabilitosi alcuni mesi dopo, lo scrittore decide di lasciare per sempre l’Urbe e di recarsi a Mantova, dove ha alcuni amici potenti pronti ad accoglierlo, fra cui il condottiero Giovanni delle Bande Nere e il duca Federico Gonzaga. Così, nella notte fra il 13 e il 14 ottobre dello stesso anno, volge definitivamente le spalle al colonnato di san Pietro.
I protagonisti di questo eclatante fatto di cronaca sono Achille Della Volta, un sicario prezzolato al servizio dell’influente datario pontificio e vescovo di Verona Giovanni Matteo Giberti, e Pietro Aretino, la vittima. Il movente dell’attentato (o intimidazione?) è da ricercare nella denigrazione del datario in alcuni componimenti di satira politico-ecclesiastica (le ‘pasquinate’) e nella perdurante ostilità di Giberti, che con lo scrittore ha già avuto uno screzio nel 1524: in quell’anno, infatti, il pasquillista ha fatto scarcerare un incisore di immagini pruriginose, Marcantonio Raimondi, imprigionato dal datario. Ma un ruolo non minore in questa vicenda è attribuibile alla pubblicazione, nei mesi che precedono l’imboscata, di un opuscoletto di Aretino: i Sonetti lussuriosi, un fortunatissimo libercolo di poesie erotiche in italiano che accompagnano proprio le incisioni pornografiche di Raimondi. Agli occhi di Giberti, un vero oltraggio al pudore.
Per cogliere la portata di questo libretto, bisogna approfondire Pietro Aretino (1492-1556), autore troppo sottovalutato dai manuali scolastici. Prolifico e fuori dagli schemi, in grado di spaziare dalla poesia comico-satirica alla scrittura religiosa (che quasi gli vale il cappello cardinalizio nel 1553), Aretino è uno «scrittore di razza» che, con una tenacia e un carisma fuori dall’ordinario, si afferma nelle principali corti italiane del XVI secolo, spesso con una mancanza di scrupoli che induce alcuni suoi contemporanei, Berni e Doni su tutti, ad etichettarlo come «infame».
La sua è una vita dedicata a ricercare il successo e a intessere amicizie influenti con illustri artisti e politici: si pensi all’intenso e sincero legame con Raffaello, iniziato a Perugia intorno al 1507 e attestato dall’epistolario aretiniano e dal celebre Doppio ritratto dell’Urbinate (dove, oltre al pittore, si può riconoscere Aretino). La fama di «poeta malédico», derivante dalla satira rivolta contro papi e porporati, è indirettamente confermata da Ariosto che, nel XLVI canto del Furioso (14), ha buon gioco nell’affibbiare al «divin Pietro Aretino» l’emblematico e durevole epiteto di «flagello de’ principi». Notevole, per il figlio di un ciabattino.
Nella sterminata produzione aretiniana, il caso dei Sonetti lussuriosi è sicuramente fra i più intriganti, sia per la sua storia editoriale (di cui l’attentato è solo una tappa), sia per le sue implicazioni a livello socio-culturale. La vicenda del voluttuoso opuscolo comincia con l’allievo prediletto di Raffaello, forse già noto ad Aretino, Giulio Romano. Intorno al 1520, questi realizza sedici disegni, i cosiddetti Modi, immagini giocose in cui, per dirla castamente con Vasari, sono raffigurati «in quanti diversi modi, attitudini, positure giacciono i disonesti uomini con le donne».
Negli sconci disegni di Giulio Romano, oggi quasi tutti perduti, corpi di uomini e donne compenetrati e avvinghiati sono ritratti nel momento del congiungimento carnale, mentre provano piacere dall’amplesso con evidente e reciproco gusto, talora con vere prodezze atletiche. Da queste sedici rappresentazioni, nella Roma della fine del 1524, Marcantonio Raimondi ricava altrettante incisioni che, una volta stampate, travolgono l’Urbe con un inarrestabile successo di pubblico.
La clamorosa diffusione di un prodotto tanto scandaloso, però, non sfugge alle attenzioni del Vaticano e meno che mai allo sguardo del potentissimo Giberti, che fa sequestrare le incisioni di Raimondi e lo incarcera (Giulio Romano, invece, si salva trasferendosi provvidenzialmente a Mantova). Ma Pietro Aretino, che a Roma è già un letterato di fama, sfrutta il suo (al tempo) ottimo rapporto con papa Clemente VII e riesce a far liberare Raimondi. Lasciamo che sia lo stesso ‘flagello de’ principi’, in un’epistola del 1537, a raccontarci cosa accade dopo:
Da poi ch’io ottenni da Papa Clemente la libertà di Marc’Antonio Bolognese, il quale era in prigione per avere intagliato in rame i XVI modi etc., mi venne volontà di veder le figure, cagione che le querele Gibertine esclamavano che il buon vertuoso [Raimondi] si crocifiggesse; e vistele, fui tocco da lo spirto che mosse Giulio Romano a disegnarle. E perché i poeti e gli scultori antichi e moderni sogliono scrivere e scolpire alcuna volta per trastullo de l’ingegno cose lascive […] ci sciorinai sopra i Sonetti che ci si veggano ai piedi.
Certo, è altamente probabile che un intellettuale anticonformista come Aretino avesse già avuto per le mani le incisioni dei Modi. Comunque stiano le cose, dalla scarcerazione di Raimondi la vicenda dei Sonetti lussuriosi diventa quasi del tutto oscura; la stessa critica aretiniana è ancora costretta a ricostruire congetturalmente i fatti a causa del silenzio che ha avvolto la sconveniente operetta, soprattutto nei primi tempi dopo la sua redazione. È però sicuro che il nostro autore abbia scritto i Sonetti fra la fine del 1524 e l’inizio dell’estate 1525.
Aretino innova la versificazione ispirata a figurazioni licenziose, che ha radici nella cultura classica (già ne scriveva Plinio il Vecchio nella Naturalis Historia, 35 72). La sua poesia non si limita a descrivere l’immagine o a fornirne l’esegesi (come, invece, fa Raffaello con i suoi disegni), ma conferisce un’anima dialogica a ciascuna delle sedici raffigurazioni, mediante un sonetto sempre caudato, cioè con tre versi finali aggiuntivi di ‘coda’, allusione alla ben più prosaica coda maschile.
Ogni poesia, all’interno della pagina, è posta al di sotto dell’incisione, a mo’ di didascalia o di commento, escluse la prima e l’ultima che fungono da proemio e conclusione, per un totale di diciotto sonetti sicuramente autentici. I frangenti ritratti da Giulio Romano e incisi da Raimondi diventano così l’istantanea di uno scambio di battute sconce fra i protagonisti dell’atto sessuale, i quali, da immobili che apparivano, vengono adesso vivificati dalla salace e ben poco petrarchesca penna aretiniana.
L’esito, ovviamente, è esilarante, anche grazie al linguaggio scurrile. Edulcorato esempio è la situazione boccaccesca evinta dal dialogo fra una giovane mamma, intenta a cullare il figlioletto, e «maestro Andrea» (un pittore veneziano, intimo amico di Aretino), col quale la donna si sollazza: «Sta cheto, bambin mio, ninna nannà. / Spinge, maestro Andrea, spinge ch’ei [il membro] c’è» fa lei; e l’amante replica: «Signora, adesso adesso v’entrerà; / cullate bene il fanciullin col piè, / e farete servigio a tutti tre, / perché noi compiremo, ei dormirà», (7). Innumerevoli sono le richieste di posizioni e pratiche sessuali anticonvenzionali: «Alza ben questa gamba e fa’ buon gioco, / poi mena senza far reputazione [senza riguardo]», così una bramosa dama incita un «caro vecchione», anch’egli consapevole che il piacere del sesso «me farà lieto e voi lieta e beata» (3).
Altrove, non meno propositiva è una famosa prostituta romana, Lorenzina, che dimostra una certa fantasia in fatto di ‘modi’: «Dammi la lingua e appronta i piedi al muro, / stringe le cosce e tienmi stretto stretto» (14), dice all’uomo, poco prima di lamentarne l’estrema turgidezza. E un’altra audace fanciulla, tenuta «a gambe in collo» dal compagno, nel concito dell’amplesso «del letto si ritruova in su la cassa [sul telaio]» del talamo; e c’è da credere che i due giacciano così da parecchio, se la poverina chiede al vigoroso amante: «Ritornami sul letto, che mi fai / crepar qui sotto, con la testa bassa» (17).
In quell’«apologia dell’atto sodomitico» eterosessuale che sono i Sonetti lussuriosi, quasi imbarazza la quantità di penetrazioni ‘disoneste’, eppure appetite da entrambi i protagonisti. Una coppia, scherzando (ma non troppo), ne discute come di un fatto di «decoro»: se un uomo, al contrario dello «spietato e fiero» protagonista del sonetto, non è particolarmente dotato per soddisfare la sua compagna con un rapporto vaginale, allora dovrebbe convenientemente fornirle un piacere ‘alternativo’, così da sopperire alla propria scarsa prestanza e non intaccare la goduria femminile (4). Suggerimento, questo, immancabilmente attuato dal sottodimensionato amatore di un altro sonetto, il quale mette sottosopra la compagna e si adopera anche con le mani, perché ella possa dire «alfine / che son un valent’uomo in tal mistiero» (10).
Chiudiamo questa breve rassegna con la spavalderia di una fanciulla gaudente, che una anziana e severa castigatrice della morale sorprende, forse davanti alla finestra, mentre l’amante è intento a «specchiarsi» nelle sue pudenda come Narciso nell’acqua. La giovane, irata per questa sgradevole intromissione in un momento tanto appagante, risponde stizzita («Io te n’incaco, franciosata vecchia [Io me ne frego, vecchia sifilitica]») e ribadisce orgogliosamente di essere «ghiotta» di ‘mascolinità’ più di quanto non lo sia un’ape dei fiori (12).
Va da sé che il linguaggio dei sonetti insiste in maniera compiaciuta sulla volgarità dei termini, specie di quelli che designano i genitali e gli orifizi. Il procedimento è interessante perché, riproducendo fedelmente i discorsi degli amanti fra le lenzuola, favorisce l’immedesimazione del lettore nella scena. Insomma, se già le immagini giocano abilmente con le tendenze scopofile del fruitore mediante abili espedienti prospettici, la penna smaliziata di Aretino aggiunge un surplus di coinvolgimento e di senso. Il pasquillista, del resto, è ben consapevole degli effetti di questo genere di opere sul pubblico, tant’è che, al termine del sonetto conclusivo, si dice certo che i lettori «ne la brachetta» si siano «corrotti». Qualora non ci credessero, Aretino li invita spassosamente a frugarsi nelle parti intime, per verificare l’efficacia del libercolo e la veridicità delle sue parole: «E toccatel con mano se nol credete» (18).
È facile capire perché, alla loro pubblicazione, i Sonetti lussuriosi conoscano una diffusione rapida e eccezionale. Tuttavia, un solo oggetto tipografico cinquecentesco che li reca è sopravvissuto sino a noi, peraltro senza frontespizio, nome dell’autore e titolo, mutilo di una carta interna e privo di note tipografiche (luogo e data di stampa). Si tratta di una copia pirata e fuori dal controllo del poeta, probabilmente posteriore al 1537. Ma questo piccolo testimone è comunque foriero di una serie di informazioni. La sua grandezza, pari a quella di una cartolina (in 8°), coincide con quella dei ‘petrarchini’, i ‘tascabili’ del Canzoniere in voga nel Cinquecento, con cui le gentildonne del tempo vengono ritratte. Eppure, nel 1525 questo formato non esiste ancora, mentre è attestato nell’edizione del 1534 di una fortunata opera dotta, gli Emblemata di Andrea Alciato (dove, pure, il testo accompagna le immagini).
Due ipotesi sono quindi possibili. Se il ‘petrarchino’ è il formato scelto da Aretino anche per la prima edizione dei Sonetti lussuriosi, allora il poeta, oltre a rivoluzionare l’editoria libraria tramite la compenetrazione di immagini e testo, precorrerebbe i tempi, dando origine a una moda. Oppure, se Aretino negli anni ’30 sfrutta il già avviato ‘petrarchino’ per le sue poesie sconce, avremmo una conferma della sua abilità come editore, senza contare che l’utilizzo del formato di una nota opera ‘alta’, come gli Emblemata, per un libretto pornografico è un gesto genialmente dissacrante.
Sta di fatto che questa soluzione editoriale viene premiata dal pubblico, come suggeriscono, oltre che le pugnalate inferte ad Aretino, anche le immagini nel testimone superstite: in alcuni punti, infatti, la scarsa omogeneità delle incisioni lascia presupporre l’utilizzo di stampi di legno stancati dall’uso. I Sonetti lussuriosi spariscono dalla storia della letteratura e della cultura italiana sin dal 1557, anno in cui le opere di Aretino, quando non vengono distrutte, finiscono all’Indice. Ma qualcosa, seppur per caso, si salva dalla furia epuratrice, prima del Settecento libertino. Due anni fa, infatti, Danilo Romei ha ritrovato un manoscritto del 1628 in cui, fra decine di componimenti italiani e non, appaiono anche i Sonetti lussuriosi, indicati con un titolo fuorviante, ma quanto mai appropriato: Cazzeide, con buona pace della censura ecclesiastica.
di Lelio Camassa