Ivo Andrić e il ponte sulla Drina
un viaggio letterario dentro la Bosnia
E così sulla porta, in mezzo al cielo, al fiume e alle montagne, una generazione dopo l’altra apprendeva a non compiangere oltre misura ciò che la torbida acqua si portava via. In tutti penetrava la spontanea filosofia della cittadina: che la vita è un miracolo impenetrabile, perché si consuma e si disfà incessantemente, eppure dura e sta salda «come il ponte sulla Drina».
Probabilmente il nome di Ivo Andrić dirà poco, o probabilmente nulla, alla maggior parte dei lettori italiani. Lo stesso si potrebbe dire per una delle sue opere più importanti – sicuramente la più famosa, Il ponte sulla Drina (in serbo Na Drini Ćuprija), suo romanzo d’esordio pubblicato nel 1945, pochi mesi dopo la fine del secondo conflitto mondiale.
Eppure Ivo Andrić nel 1961 vinse il Premio Nobel per la Letteratura, “per la forza epica con cui ha tracciato e rappresentato i destini umani concernenti la storia del suo paese”, e grazie alla notorietà acquisita con la vittoria del premio, le sue opere vennero poi tradotte e divulgate in moltissime lingue. Nel 1962, per esempio, arrivò in Italia, tradotto per Mondadori, proprio Il ponte sulla Drina, capolavoro che purtroppo oggi è poco conosciuto.
La vita dell’autore è indissolubilmente legata alla sua produzione letteraria. Andrić nacque a Travnik, in Bosnia-Erzegovina, il 9 Ottobre 1892. Di famiglia serba, passò l’infanzia e l’adolescenza a Sarajevo, dove, già durante il liceo, divenne sostenitore dell’indipendenza della Bosnia dall’Impero austro-ungarico nonché membro del movimento rivoluzionario Mlada Bosna (“Giovane Bosnia”), la medesima organizzazione di cui faceva parte Gavrilo Princip, passato poi alla storia per aver ucciso, il 28 Giugno 1914 a Sarajevo, l’arciduca Francesco Ferdinando. Il giovane Andrić completò poi gli studi universitari tra Zagabria, Vienna e Cracovia. Dopo la I Guerra Mondiale riuscì a intraprendere una fruttuosa carriera da diplomatico, attività che gli consentì di viaggiare per tutta l’Europa e alla quale affiancò una sempre più notevole produzione letteraria. Nel secondo dopoguerra la sua notorietà venne accrescendosi in tutta la Jugoslavia, e Andrić si affermò quale figura di spicco nel panorama letterario balcanico e slavo. Morì il 19 Marzo 1975 a Belgrado, all’età di 82 anni.
Tutti i racconti, le poesie e i romanzi pubblicati da Andrić sono collegati – come dicevamo prima – alle sue vicende personali e alla storia della Bosnia, sua terra natale. Il ponte sulla Drina è infatti ambientato a Višegrad, cittadina oggi situata al confine orientale della Bosnia, che per secoli fu città di frontiera tra l’Impero ottomano e l’Occidente cristiano. Chiusa in una valle tra i fiumi Drina e Rzav, non divenne mai una metropoli, ma vide sempre più aumentare la sua importanza proprio per la posizione strategica in cui si trovava. Punto di snodo politico e commerciale, Višegrad era anche una città multietnica, luogo d’incontro fra fedi, etnie e culture diverse e a tratti anzi opposte: in essa convivevano turchi, serbi ed ebrei, divisi da usanze e credenze ma uniti dal commercio e dalla vita cittadina, da una stima e una considerazione reciproche.
Torniamo al romanzo. Il vero protagonista del libro è il ponte che, in prossimità di Višegrad, collega tuttora le due sponde del fiume Drina. La storia del ponte è anche la storia della cittadina bosniaca, e Andrić parte da questo assunto per tracciare un affresco storico che va dal 1516 al 1914, per un durata di ben quattro secoli, e copre le vicende di Višegrad, dei suoi abitanti e del ponte stesso. Vedremo più avanti perché la narrazione si conclude proprio in un anno, il 1914, fondamentale per la storia dell’Europa e del mondo, e anche per il racconto dell’autore.
Andrić comincia subito col descrivere il ponte sul fiume Drina. Ci dice che è lungo duecentocinquanta passi e largo una decina (cioè, rispettivamente, 179,50 metri per 10), e che al centro la larghezza risulta raddoppiata per effetto di due terrazzi assolutamente identici, uno su ciascun lato. Questa parte centrale è detta “porta”, mentre uno dei terrazzi, quello di destra, provenendo dalla città, è detto “sofà”, perché dotato di alcuni sedili di pietra poggiati sul parapetto e, davanti, di due piani di gradini (presenti anche dall’altro lato) che permettono di sostare e riposare. Il terrazzo di sinistra invece è vuoto, privo di sedili.
Il ponte consta di undici arcate, ampie e armoniose, e di altrettanti pilastri, alti circa una ventina di metri e costruiti con la medesima pietra chiara con cui è stato edificato il resto della struttura del ponte, ovvero il pavimento e il parapetto; il pilastro centrale, sul quale poggia la “porta”, è più largo degli altri. Sotto, scorre smeraldina la Drina.
Ma veniamo alla trama del romanzo. La narrazione, dopo un primo quadro descrittivo del ponte e della città, parte dal vicino villaggio di Sokolovići, in un mattino novembrino dell’anno 1516. Un ragazzo serbo di dieci anni è appena stato prelevato da Sokolovići per mano di alcuni cavalieri turchi: è uno dei tanti bambini cristiani che sono stati rapiti per formare quel “tributo di sangue” che ogni zona sottomessa all’Impero ottomano deve pagare ad Istanbul; questa volta è toccato alla regione della Drina: i giovani, strappati alla loro terra e alle loro famiglie, verranno poi islamizzati in terra straniera. La comitiva di bambini e cavalieri arriva al fiume: non c’è ancora alcun ponte a unire le sponde; si dovrà compiere la traversata sul traghetto governato dall’apatico Jamak. In quel momento, sotto una pioggia torrenziale, l’ultima immagine che rimane impressa nella mente del bambino è questa: il tumulto delle acque della Drina e, sopra, la strada interrotta, con le due sponde separate, proprio come egli sta per essere separato per sempre dalla propria casa. Quel bambino, una volta cresciuto, diverrà Mehmed Paša Sokolović, gran dignitario del sultano turco, kapudan pascià (comandante della flotta) e personaggio ricco e potente. Mehmed Pascià penserà sempre al passaggio interrotto sulla Drina, finché un giorno non deciderà di far costruire un ponte sul fiume.
Così inizia la storia del ponte sulla Drina. Ci vorrà circa mezzo secolo perché esso venga completato, e centinaia di lavoratori serbi e turchi dovranno faticare tra fango, baracche, congiure, punizioni e pubbliche esecuzioni; il cantiere sarà edificato attorno a Višegrad, e la cittadina gli crescerà attorno, e i suoi abitanti, i visegradesi, saranno sempre più scontenti e dubbiosi per questa grande opera la cui realizzazione sembra perennemente lontana e faticosa. Ma poi, verso la fine del XVI secolo, il ponte sarà finalmente finito, e i cittadini di Višegrad lo potranno guardare inorgogliti, fieri della propria città e del ponte che adesso ne costituisce il monumentale ingresso. Sarà anche apposta un’iscrizione, sul terrazzo di sinistra, per ricordare l’impresa di Mehmed Pascià. Il ponte, la “porta” della città.
Andrić procede poi col suo racconto. Da piccoli aneddoti e leggende cittadine si dipanano decine di racconti secondari, storie d’amore e di sangue; e l’attenzione si sposta sui visegradesi, sulle rivolte dei cristiani contro i turchi, sulle discussioni tenute dagli anziani della città sul “sofà” frammezzo al cielo, all’acqua e alle montagne, sulle alluvioni che saltuariamente investono Višegrad, distruggendo case, raccolti e trascinando via ogni cosa, ma lasciando il ponte sulla Drina sempre bianco e intatto, saldo e invulnerabile. E nel frattempo il tempo passa, gli anni si sommano, il passato si accumula. Nel 1878 il confine turco si sposta a Est: l’Impero ottomano, ormai decadente, deve cedere la Bosnia, e con essa anche Višegrad, all’Impero austro-ungarico. Arrivano dunque i nuovi signori della città, funzionari, commercianti e soldati austroungarici provenienti da ogni zona del grande impero mitteleuropeo: Austria, Croazia, Slovenia, Ungheria; e con essi giungono tante innovazioni tecnologiche e burocratiche. Aumentano le tasse e si costruiscono pali della luce, stazioni ferroviarie, uffici e alberghi. Gli anziani visegradesi non riconoscono più la propria cittadina: non comprendono il modo di fare di questi occidentali, sempre presi a costruire e a distruggere, a edificare e ad abbattere, senza sosta, senza pace. Ma la fine del XIX secolo è anche un’epoca di grande sviluppo commerciale, di arricchimento ed espansione: i giovani visegradesi cominciano a spostarsi per tutto l’impero, frequentano le università di Vienna, Zagabria e Sarajevo, e al loro ritorno portano con sé nuove conoscenze e idee; è l’epoca dei nazionalismi e del socialismo, dei giovani rivoluzionari che vogliono distruggere un mondo ormai ritenuto soprassato, e sicuramente ingiusto, per costruirne un altro migliore e più giusto, almeno nelle loro intenzioni. Sappiamo tutti a cosa porterà questo grande fermento politico e intellettuale. Arriviamo infine al 1914: scoppia la Prima Guerra Mondiale, cominciano le persecuzioni nei confronti dei serbi e i combattimenti tra le truppe serbe e quelle austro-ungariche toccano anche Višegrad, che viene a trovarsi proprio in mezzo ai bombardamenti effettuati dalle batterie dei due schieramenti. Le bombe cadono persino sul ponte, ma lo scalfiscono soltanto; sono proiettili sparati da obici di montagna, cannoni di piccolo calibro. Ma qualche anno prima gli Austriaci avevano minato un pilastro del ponte, così da farlo saltare in caso di guerra; ed ecco che una bomba cade proprio su quel pilastro, il settimo, e l’intera arcata scoppia con grande fragore, in una pioggia di pietre e calcinacci. Il ponte sulla Drina non è più intero: adesso tra il sesto pilastro e l’ottavo c’è il vuoto, le sponde non sono più unite, le arcate sono frammentate, divise, proprio come il resto del mondo tutt’attorno.
Qui, alla fine di un sogno, sul morire di un’illusione che per secoli aveva avuto una forma ed era stata anzi realtà tangibile, memorabile punto d’incontro e convivenza, si conclude il grandioso romanzo di Andrić.
Difficile definire il genere cui potrebbe appartenere Il ponte sulla Drina: l’opera di Andrić oscila tra il romanzo storico e l’epopea epica, filtrando lo scorrere del tempo attraverso la lente della narrazione romanzata, della proliferazione di racconti che tendono ora al realistico ora al fantastico. Nel suo libro Andrić fonde la tradizione del romanzo occidentale con la favolistica orientale, le vicende burrascose dei popoli slavi con la saggezza e l’imperturbabilità del mondo arabo e islamico. Proprio come il ponte sul fiume Drina, Andrić collega tra loro due mondi confinanti, due culture diverse e conflittuali, e però complementari.
E su ogni vicenda domina il ponte di Mehmed Pascià, simbolo di quanto al mondo è – o piuttosto, era – considerato “sacro”, frutto non soltanto della fatica degli uomini, ma anche e soprattutto del volere divino: un omaggio dato agli uomini in cambio della loro dedizione e del loro valore, un “dono di Dio”, un tesoro terreno da preservare e custodire con cura – elemento quasi soprannaturale che né la forza della natura né la violenza dell’uomo avrebbero mai potuto rovinare o distruggere. Quando il ponte subisce l’attacco della guerra e ne risulta ferito, sfiorisce purtroppo anche l’idea che abbia qualche ragione di esistere questa presunta sacralità – da non collegare per forza ad alcunché di religioso, ma piuttosto a un’idea di “uomo” legata al suo essere spirito, oltreché carne –, si sperde come cenere al vento l’idea che esistano cose, costruzioni e valori che l’odio e la violenza non dovrebbero mai provare a toccare.
Oggi sappiamo che il ponte sulla Drina è stato investito anche da altri periodi di dolore e morte: dopo il 1914 furono distrutti altri due pilastri, poi ricostruiti; la Seconda Guerra Mondiale se ne prese altri 5; e nel 1992, infine, durante la Guerra di Bosnia, il ponte e Višegrad furono teatro di orribili episodi di pulizia etnica.
Chissà, però, cosa potremmo dire se anche a noi, un giorno, capitasse di stare seduti sul “sofà” del ponte Mehmed Paša Sokolović di Višegrad, con lo sguardo fisso oltre le montagne o perso tra mille giri di cielo, appoggiati al saldo parapetto di pietra, e con la Drina sotto di noi, vicina eppure lontana. Forse diremmo che al mondo c’è troppo dolore e che l’uomo, nei secoli dei secoli, sembra sempre portato a fare più il male che non il bene; ma potrebbe anche darsi che lì, in quel preciso istante, pensassimo che ciò che è distrutto si può poi ricostruire, e che quel che ora è diviso pure un giorno potrà essere riunito, e infine “che la vita è un miracolo impenetrabile, perché si consuma e si disfà incessantemente, eppure dura e sta salda «come il ponte sulla Drina».”